L’UOMO DISINCANTATO – Uno sguardo disincantato (3)

A un certo punto la mia bellissima Miss Lilith Langtry era sgusciata fuori dalle molli ombre di quella visione proprio quando si stavano impastando oltremisura con l’ulteriore discesa in profondità del mio sonno, esercitando su di esso una forza contraria e molto più potente del suo inabissamento con la stessa energia incontenibile del primo zampillo di una sorgente che viene finalmente alla luce dopo essersi fatta strada nella dura roccia; e la sua apparizione aveva colmato fino all’orlo, grazie a una freschezza fatta di verità mista a veglia, il soprassalto appagante del mio stupore a sua volta secondo una modalità non troppo dissimile dalla rappresentazione, per certi versi anche molto teatrale, che danno di un terremoto le vibrazioni delle singole scosse allorché vengono riverberate nella poca acqua raccolta dentro una caraffa di vetro posta sopra un tavolo, o su un lavabo, o su una credenza. Così, mentre presso di me dormivo ancora alla giusta profondità, era come se laggiù mi fossi già – e per lei sola – ridestato.
Miss Lilith veniva verso la finestra dietro la quale la stavo guardando, io fuori, lei all’interno di quel casale abbandonato; e stavolta non aveva alcun vestito addosso: era completamente nuda, proprio come l’avevo sempre desiderata. I suoi seni bianchi dondolavano piano mentre lei, sorridendomi appena dalle estremità della sua bocca, camminava scalza sulle lastre di cotto, mettendo un piede davanti all’altro sempre a partire dalla punta fino ad appoggiare anche tutto il tallone in un estremo, morbido abbandono alla distensione più assoluta, trasmettendomi il sentore misterioso di essere lo spettatore miracolato di una danza impercettibile, una specie di Erode Tetrarca del silenzio. Il mio sguardo andava, tornava e infine indugiava un poco sui suoi seni, che mi sembravano due grappoli d’uva ancora appena acerbi, abbandonati al vento sfinito dal caldo del mezzo agosto chiantigiano – quello che prelude alla vendemmia svolazzando ansante tra il bacino dell’Arno e quello dell’Ombrone – prima di ruzzolare, definitivamente ipnotizzato, in cima alle sue gambe, sopra quel ciuffo selvaggio, lasciato libero di rivendicare, per una fisiologica questione di principio, il pudore presunto di una foglia di fico.
Sulla tavola c’era un piatto colmo di dolcetti di frolla montata decorati con dei piccoli intarsi di frutta candita e una piccola teiera in porcellana bianca che fumava ancora, indizio certo di un’infusione appena avvenuta. In quel momento, sentendo che il mio stomaco aveva cominciato a rumoreggiare per la fame (non saprei dire ovviamente se solo nel sogno o anche per davvero), mi ero reso conto di trovarmi in balia, di punto in bianco, della voglia irriducibile di inzuppare un bel po’ di quei pasticcini dall’aspetto così goloso e invitante in una tazza del mio tè preferito, quello degli altopiani dello Sri Lanka, che quando esistevamo ancora come una famiglia mia madre era solita prepararmi assecondando la lentezza di alcuni suoi gesti, sempre molto brevi e precisi e immersi in un’aura fiabesca e carichi di gentile devozione, mentre mi raccontava, dissociando perfettamente i movimenti delle sue mani dal flusso di quei pensieri che uno dopo l’altro mi donava impressi nel suono esatto della sua voce così come fanno i pianisti quando scindono le parti della mano destra da quelle che eseguono intanto con la sinistra e viceversa, di come i coltivatori cingalesi lo raccogliessero da secoli a mano, dediti a loro volta a una lentezza necessaria, indifferente al tempo e a modo suo non meno cerimoniosa, e che ha le foglie di un colore giallo lucido, simile a quello dell’oro. Si trattava di un desiderio germinato direttamente – mentre l’idea del sapore zuccherino dei dolci si andava già amalgamando insieme al gusto asprigno e severo del tè in una fantasmagoria sensoriale tutta ispirata a inebrianti premonizioni agrodolci – da quello, bruciante, per il corpo nudo di Miss Lilith: esso era, in definitiva, l’emanazione, prima scomposta e poi ricostruita e resa infine anche innocente dall’abbondanza miracolosa sgorgata da una prossimità radicalmente diversa, di due peccati – la lussuria e la gola – già consanguinei in partenza per il fatto di derivare da altrettanti, leciti imperativi naturali – la funzione riproduttiva e il bisogno di nutrimento – poi deviati verso la sregolatezza soltanto dal prevalere della passione degli uomini per il piacere che dispensano.
In tutto questo euforico germogliare di sentimento da sentimento, sospinto attraverso il graduale e a modo suo anche tenero e fanciullesco venire meno della ripetitività di qualsiasi fidato contorno sensibile, e ancora oltre, su in alto fino alla conquista della libera ebbrezza del più assoluto rimescolarsi reciproco, capace a un certo punto addirittura di lasciarsi appassire, in parte o per intero, scivolando lungo un declino floreale sempre e comunque trattenuto dalla gentilezza e mai dolente, prima di ritrovarsi infine di fronte a nuove e spiazzanti rinascenze in cui ogni punto di vista poteva indifferentemente riprodursi identico a quello che l’aveva preceduto così come anche nella forma di una misurata variazione oppure mostrarsi addirittura capovolto, il mio modo di desiderare, senza che io ne fossi consapevole se non secondo i criteri e con i caotici sconfinamenti tipici dello stato di un sognatore che sta dormendo, s’interrogava su se stesso, cercando di ricalibrarsi, di mettere a fuoco i propri oggetti da una distanza diversa, misteriosamente disincantata, che era a ben guardare una sghemba determinazione ai limiti dell’ossimoro, uno scavo archeologico alla ricerca di tutta la prossimità concepibile, quella cioè che giace, ammessa all’infinito, nei fondali preziosi della più autentica lontananza. Come la voglia antica del mio tè, non potendo affidarsi all’olfatto, dato che mi trovavo all’esterno del casale, paralizzato dietro il vetro della finestra, era stata costretta ad accontentarsi dell’ambiguità aromatica della vista del fumo sprigionato dalla teiera e dei pasticcini sistemati nel piatto, così a sua volta anche la smania di toccare il corpo di Miss Lilith si era dovuta trattenere di fronte alla necessità del ripiegamento su una percezione tattile surrogata, affidata di nuovo ai buoni uffici del solo sguardo. Grazie alle maglie larghe della verità propria di tutte le esperienze oniriche la vista era emersa alla fine in qualità di madre di tutte le finzioni dei miei sensi.
Intanto, dentro al casale, lungo una strana matrioska di molli stanze in fuga prospettica, Miss Lilith e la sua spettacolare nudità danzante e integrale erano sul punto di trasfigurarsi in un ricordo, di assumere cioè all’improvviso una consistenza diversa da quella che anche nei sogni, sebbene rinunciando a priori alla loro precisione, mantengono comunque le cose reali: infatti il sogno che si assume la responsabilità di diventare un ricordo si opacizza e muta in una variante magica della nostalgia.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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