Lasciandomi cullare dalle onde e dai guizzi di quello sguardo per me assolutamente nuovo ero giunto infine nei pressi di una delle finestre, intravedendo al di là del vetro che, nonostante le incrostazioni di sudiciume e i polverosi brandelli di ragnatele sparsi un po’ ovunque a causa del degrado e agitati di tanto in tanto da brevi fronzoli d’aria, era ancora translucido a sufficienza per rivelare l’interno oblungo di un grande salone. Il pavimento era ricoperto da lastre di cotto vermiglio di media grandezza che, specie se paragonate a tutto quanto il resto, erano rimaste stranamente lucenti, fin quasi a vibrare, simili ai grumi di colore sopra le tele di certi espressionisti astratti, sul dorso della superficie dei leggeri rigonfiamenti che accompagnavano il perimetro di ciascuna quando, adattandosi allo schema elementare di posa in diagonale suggerito da una delle molte malizie dell’ingegnosità contadina, si accostava all’altra lungo un’incisione sempre uguale e dall’intenso rossore sanguigno, a causa di una mescolanza assorbente e oleosa fatta di minime schegge impazzite di raggi solari, appena disarticolati dall’impatto fatale con ogni singola cosa del mondo, e di aeree volute d’ombra soffice, quasi sospese nel loro stesso disegno come nel bozzolo di una crisalide. Il grande camino di pietra grigia aveva l’aria di non essere stato acceso da molto tempo e all’interno era rivestito in modo uniforme da una grassa patina di fuliggine che in certi punti, là dove diventava più secca, si screpolava in scaglie simili a tanti ciuffi di penne di corvo. Il mobilio era a dir poco essenziale e già a prima vista non si potevano nutrire dubbi di sorta sul suo pessimo stato di conservazione: c’era una sbilenca credenza di noce in stile Luigi Filippo a due ante, con altrettanti cassetti, una mensola superiore esterna e un piano interno; e poi un tavolo ovale, tarlato un po’ dappertutto, con un profondo taglio al centro del suo piano cartesiano uguale alla misura del suo diametro – una caratteristica tipica di quelli costruiti per essere allungati all’occorrenza a seconda del numero dei commensali – posto su un robusto piantone centrale, un bulbo intagliato con decori a malapena dignitosamente artigianali dal quale si diramavano quattro piedi mossi; e infine due sedie in stile Thonet con tanto di sgangherate sedute in paglia alla viennese.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti