La visione di Miss Lilith Langtry si era screpolata a poco a poco in una densità che mi si mostrava percorsa da fluttuazioni certamente infelici anche se a modo loro, un modo inesplicabile e prigioniero dell’assoluto mutismo del proprio senso. Era come se a un tratto il piano terra di quel casale, squadernandosi, si fosse complicato nella struttura fantastica di un labirinto di pietra e di specchi; non sapevo più con precisione dove si trovasse Miss Lilith, eppure la vedevo, ora di fronte, nella sala principale in cui mi era apparsa all’inizio, poi invece di spalle, mentre con pochi tocchi della sua mano sinistra si aggiustava l’onda morbida dei capelli neri, in un angolo più distante e rivelato soltanto da uno specchio invisibile e con ogni probabilità anche ingannatore e ombreggiato da quello che doveva essere il profilo sottile di una porta laterale semiaperta; scorgevo la sua pelle nuda, bianchissima come sempre eppure oramai priva di nitore, inzuppata da una specie di liquidità opalescente, simile a quella di una candela accesa guardata in un giorno d’inverno attraverso la condensa piagnucolosa che scende sui vetri delle finestre. E in effetti va detto che cominciava a fare piuttosto freddo; avevo qualche brivido più profondo lungo la schiena e sentivo che i miei piedi stavano diventando terribilmente gelati; intorno a me saliva intenso un profumo indefinibile, qualcosa che combinava un sentore nordico di brughiera notturna umettata dalla formidabile impenetrabilità ciclopica della sua nebbia insieme a quello generoso di un sottobosco mediterraneo accarezzato con elegante discrezione dai venti sempre gentili dei pomeriggi autunnali francesi, spagnoli e italiani, e poi ancora aromi di funghi al forno, di castagne arrosto e di pinoli tostati. Che ne era stato dunque della torrida, gioiosa stagione di poco prima? Posso ancora supporre soltanto che fosse stata inghiottita, immagine per immagine, dal tempestoso manifestarsi nel mio sogno delle sue forme materiali e poi di tutte le loro precise dissoluzioni spirituali. Essa, dopo essersi eclissata in sogno dietro la quinta – giusta – del pensiero, era rimasta in me solo come una soglia ideale, come l’astratta coincidenza tra il rimpianto e la memoria.
A un certo punto mi ero sentito scosso da un’emozione particolarmente forte, un sussulto che, come accade di frequente quando si hanno degli incubi, mi aveva sospinto con una violenza rabbiosa fin quasi alle soglie del risveglio; era, il mio, un dolore disperato, sulle prime solo minuto, aguzzo e lancinante, che poi però, dopo un breve sfarfallio durato appena pochi secondi (o minuti o forse perfino ore, perché mai come nei sogni il tempo rimane fedele in tutto alla propria apparenza), si era subito enormemente complicato, diventando scrosciante nel suono e sempre più fluido nella consistenza, e che alla fine, lungo un vortice angoscioso di crescente viscosità, si era effuso dal centro esatto del mio sonno fino a calare su ogni cosa visibile come un beffardo sipario traslucido. Così, sentendomene devastato, avevo preso coscienza del fatto che quel casale tanto misterioso non disponeva di porte e che accedervi dall’esterno era quindi impossibile per me, anche e soprattutto in un sogno; e ancora che Miss Lilith, diventata, in quel frangente di viscerale e inconsapevole caparbietà onirica, l’unico oggetto ammissibile della mia tentazione di amare, che pure vedevo molto bene mentre, candida e nuda, camminava avanti e indietro e disegnava piroette a poca distanza da me in quelle stanze desolate, era prigioniera di un definitivo al di là, di uno strano labirinto contorto dal quale ero definitivamente escluso perché il vetro della finestra che ci separava non poteva essere infranto senza che nel contempo il frastuono mi risvegliasse, conducendo subito ogni cosa a svaporare in una nuova veglia. Avevo perciò disperatamente resistito all’impulso di frantumare quel vetro che mi stava davanti con la stessa prepotenza ingannevole e beffarda di una sfida diabolica e così, dopo un po’, continuando a farmi trasportare dalla furia inconscia delle analogie fino nella profondità consolatoria del surrogato di una ricompensa divina riconosciuta alle virtù vittoriose del mio autocontrollo e alla devozione al sogno della quale avevo dato buona prova, mi ero sentito prima accolto e poi vinto dall’abbraccio di un compassionevole sentimento di rassegnazione di fronte all’inevitabilità della rinuncia al piacere del possesso del corpo di Miss Lilith, che – guarda caso – proprio nel corso di quella notte, permeata sino in fondo dal triste tremore del commiato, mi veniva promesso per la prima volta senza limitazioni; e questo nonostante il fatto che lei, segregata all’interno di quel casale, oramai tristemente inaccessibile come il loculo già occupato da una sepoltura, continuasse a offrirmelo per mezzo dei suoi rapidi e maliziosi volteggi (per quanto, a onor del vero, anche il loro carattere si stesse profondamente trasformando sotto i miei occhi, mentre assumeva a poco a poco un’evidente inflessibilità meccanica che li rendeva più simili alle giravolte di una statuetta in movimento sopra un carillon che alla danza di una ballerina in carne e ossa), compiuti lungo le linee di fuga di una prospettiva tempestata dal caos assoluto di apparizioni e dissolvenze, di realtà vera e di immagini riflesse, tra autentico spazio e illusioni ottiche, attraverso il lacrimoso presentimento che il sogno fosse davvero sul punto di concludersi una volta per tutte.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti