L’UOMO DISINCANTATO – Orfano affidato ma non adottato (5)

Devo riconoscere che quella lunga confessione, nella quale zia Maria, la portoghese, aveva ammesso di essere stata per anni una prostituta, confermando così senza inibizioni e anzi rivendicando, con un orgoglio quasi prepotente e fin nella scelta delle parole più dirette e in certi casi addirittura sfacciate, prive in ogni caso, sulla falsariga di quelle già abbastanza agre che aveva usato nell’alludere ai miei genitori, del benché minimo riguardo per i miei sentimenti e verso la mia giovane età, quanto in famiglia mi era sempre stato fatto capire di lei e del suo rapporto con lo zio Adrian, aveva provocato in me reazioni e sentimenti contrastanti.
In un primo momento qualcosa di imprecisabile, una sensazione mista di spegnimento e di groviglio, in parte fisica e in parte spirituale, aveva causato nel mio animo la chiusura repentina, quasi a scatto, di una specie di serratura interiore, la cui armatura protettiva, dentro la quale, come fosse una chiave,  si era meccanicamente girato e rigirato un dolore fatto di disagio assoluto, era costituita per intero dalla mia delusione, che dal canto suo non era mai stata così profonda e neppure altrettanto inflessibile nel demoralizzarmi. Erano quelli i momenti in cui – lo avrei capito in seguito con maggiore chiarezza – il disincanto mi si mostrava in forma ancora istintiva, come se non fosse che una debolezza caratteriale, e quindi un mio difetto, il turbamento di un bambino introverso e dall’esistenza complicata, anziché un punto di vista già predisposto dalla coscienza all’analisi razionale e quindi all’identificazione di un senso logico, all’avventura di un’oggettività rintracciabile come un filo di Arianna in un labirinto. Ciò che proviene dall’istinto, però, e in quella circostanza dovevo sperimentarlo una volta di più, quando ancora non sa e non può organizzarsi altrimenti, esalta in noi una percezione puramente emotiva della vita e delle cose che prende corpo di volta in volta e senza mezze misure in una lieve ebbrezza sfrenata oppure in una disperazione intransigente ed eccessiva. Entrambe queste sensazioni, proprio perché tali, sono anche definitive, incapaci di evolversi, e quindi se ne restano lì, in bilico, molli, l’una in attesa di farsi da parte per lasciare spazio all’altra, in ossequio al galateo psicologico dell’equilibrio possibile. Per questa ragione, offuscato com’era dietro quella velatura d’irragionevolezza, resa ancora più acerba dai tanti, intricati conflitti che rendono burrascosa ma anche incredibilmente fertile l’interiorità di un ragazzino al tempo del suo transito dall’infanzia all’adolescenza, il disincanto aveva finito prima per scomporsi e in seguito per perdersi nella sua stessa inestimabile varietà, proprio come succede a un fiume che, giunto ormai in prossimità del mare, si smarrisce al sopraggiungere dell’indolenza delle sue correnti lungo rami deltizi in perpetua trasformazione a causa dell’accumulo di materiale alluvionale, che qui sono bassi e paludosi e là invece asimmetrici e profondi, e poi tra i canneti, che si aprono con tremula pigrizia sull’immobilità opaca degli stagni, e la vegetazione più fitta, che invece si presta ad accogliere i nidi pigolanti degli uccelli migratori.
Dopo essere stato condotto dall’esplicita e ricercata crudeltà delle parole di zia Maria fino al tormento viscerale del rifiuto non solo verso la sua persona ma anche nei confronti del mondo intero, così come in quel momento mi sembrava dovesse essere in lei definitivamente ritratto, mi ero imbattuto – ancora una volta solo grazie all’istinto e a partire da una paura graziosa simile a quella con cui si affronta il sobbalzo violento di un’impennata o di una curva a gomito sulle montagne russe dei Luna Park – nella ricerca frenetica di una via di fuga, di una soluzione verosimile ispirata a quell’ottimismo impellente e necessario che è tipico dell’infanzia, quando ci si aspetta sempre di ricevere da un genitore un sorriso o una carezza come risarcimento per un rimprovero o per una punizione. Incoraggiato dal tepore del corpo di zia Maria che, nonostante tutto, continuava a non negarmi il suo abbraccio e sfruttando, come fosse un varco aperto nel muro della mia angoscia, proprio quell’apparente incoerenza fra la tenerezza del gesto e la severità delle parole che aveva usato per raccontare, senza risparmiarmi il benché minimo dettaglio, la sua versione di fatti che fino ad allora mi erano giunti soltanto attraverso i discorsi dei miei famigliari sotto forma di caute allusioni o di generica riprovazione, avevo infine dato libero sfogo al mio desiderio di una pace immediata, al quale mi ero abbandonato, trovando pronta ad attendermi anche un’indicibile contentezza, vaga come, in momenti simili, è appunto la differenza che passa tra ciò che si vorrebbe e quel che, invece, si sta vivendo per davvero.
Nel frattempo la pioggia che, come spesso capita in Inghilterra, cadeva ormai da ore a intermittenza, era cessata di nuovo, ma stavolta al di là dei vetri, sui quali da una parte il tepore cauto del nostro respiro e dall’altra le gocce d’acqua rimaste appese a vibrare al vento adombravano appena il paesaggio, scomponendolo in macchie di colore e tenui profili misteriosi come su quelle tele di De Nittis che da bambino mi piaceva guardare riprodotte in uno degli innumerevoli libri d’arte della biblioteca di mio padre, era comparsa finalmente anche la luce del sole e aveva preso la forma di larghi aloni rosa tenuti insieme da acide scalfitture ramate. Ciò restituiva al mio sguardo lo spessore e la morbidezza del chiaroscuro – mia madre avrebbe detto: “come nel Don Giovanni di Mozart, in cui non c’è nota buffa che non sia anche un po’ tragica” – rafforzando in me tanto la sensazione di una vita che si stava riappropriando del mondo quanto la voglia insopprimibile di essere felice. Poco m’importava che certi sentimenti non avessero concretezza ma fossero indotti, a prescindere dalla loro affidabilità, da un artificio retorico dell’istinto. Quella specie di luce collimava alla perfezione col mio stato d’animo e soprattutto con la bellezza intrepida di zia Maria, che la sua spudorata confessione da prostituta aveva in fondo solo maltrattato appena, così come potrebbe fare un testardo brandello di buio pesto di fronte al sorgere di un’aurora boreale. Ogni cosa si stava davvero fermando intorno alla mia felicità. Era come se l’intransigenza del passato e del futuro stessero collassando sul presente grazie all’ispirata sfrontatezza di un ragazzino. E così, mentre fantasticando mi sentivo stampata sulla faccia un’espressione fiera e aggraziata identica a quella che mi piaceva da morire nel David di Verrocchio, guardavo anche con emozione zia Maria, la portoghese, come se la vedessi per la prima volta disegnata sulla vetrata quasi cubista di una cattedrale gotica.
Lei, giunta infine per altre vie a condividere la mia stessa quiete, dopo aver percorso a ritroso nella mutevole luminosità dei suoi occhi tutta la distanza che c’era fra i toni ostentati e aspri della sfida e quelli intimi e cupi della tristezza, ora mi stringeva forte a sé e mi sorrideva.
“Da grande voglio amare soltanto donne felici perché sono le uniche capaci di essere anche malinconiche per davvero…”, le avevo detto a un certo punto, intimidito dall’eccessivo protrarsi del nostro silenzio e facendo appello a ogni risorsa del mio linguaggio che tutti, per evitare di affibbiarmi la reputazione di “strambo”, definivano “da ragazzino molto più maturo della sua età”. E allora, senza rispondermi, lei aveva sfiorato appena le mie labbra con le sue, come per lasciare intatta in me, grazie alla discrezione di un bacio non finito, la verginità del desiderio di tutti quelli veri che nel corso della mia vita avrei poi ricevuto.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

error: All rights reserved (c) massimocasa.it