L’UOMO DISINCANTATO – Solidarietà femminile

Qualche tempo dopo zia Maria, durante una lunga e ventosa passeggiata autunnale, si era decisa infine a confidarmi anche il suo ultimo e più doloroso segreto, la chiave di volta di tutto quanto il resto, l’avvenimento terribile che le era capitato diversi anni prima che io nascessi e che lei lasciasse il Portogallo per venire a stabilirsi definitivamente in Inghilterra, e in seguito al quale per un po’ non aveva più avuto il coraggio di uscire di casa, scegliendo addirittura di vivere reclusa come una monaca, vergognosa persino della propria pelle, nascosta nella sua casa, al secondo piano del piccolo palazzo bianco e verde aggrovigliato in bilico su uno dei vicoli più stretti e innocenti della Mouraria, a Lisbona, là dove non era mai accaduto niente di particolare, nessun episodio di cronaca degno di nota (figurarsi poi se di cronaca nera!), prima dell’evento che aveva funestato con la sua disumana perfidia quella mattina dolorosa e che l’aveva afferrata, come una volpe tirata via per forza fuori dalla sua tana da una muta di cani da caccia, strappandola alla modestia quotidiana di gioie brevi e di dolori tutti ancora dolcemente acerbi. Di quel suo segreto martirio, però, all’epoca i giornali non avevano parlato. Perché d’altra parte avrebbero dovuto farlo? I segreti camminano scalzi, non fanno rumore, i segreti sono ladri che sanno far bene il loro mestiere, e lo fanno da sempre con perfetta misura, senza tradirsi. Suo padre, invece, era stato tradito e proprio in quell’epico giorno di fine maggio era stato arrestato all’improvviso, nell’afa. Gli uomini grigi della polizia politica – la famigerata PIDE – erano apparsi dal nulla, come la lama di un coltello a serramanico, al primo latrato dei cani aizzati alla caccia. Il vicolo, che pochi istanti prima era vuoto come un’antica culla abbandonata in soffitta, d’un tratto si era messo a brulicare di grossi uomini urlanti. Davanti a loro, imponente su tutti, vestito con un abito di lino bianco, col panama ben calzato sul cranio come una corona e il grande anello d’oro all’anulare della mano destra, stava lui, il famoso maggiore Lourenço, il capo dei poliziotti del regime di Salazar, l’uomo che aveva diritto illimitato di vita e di morte e che non mancava mai di partecipare in prima persona a un arresto importante. Com’era appunto quello, del quale i giornali, a differenza di quanto avevano fatto poi per il dolore di zia Maria, avevano parlato a lungo, elogiando l’efficienza della polizia politica nella caccia inesorabile ai nemici della nazione, a quelli che loro chiamavano disfattisti.
La ferita di zia Maria, quella tagliola che l’aveva sfregiata quasi per caso, come per una tragica, famelica presunzione del destino, era accaduta nel mezzo di tutto quel rumore terribile, sul quale il piccolo vicolo silenzioso, incapace di sopportarne l’intera, lancinante veemenza, si era come rannicchiato in una sorta di invisibile implosione: per questo nessuno ne sapeva niente, nessuno aveva visto, nessuno era in grado di dire davvero di cosa si fosse trattato.
Da quel giorno però lei, che invece sapeva bene, aveva di fatto rinunciato a ogni cosa: a uscire, a salutare, ad andare a ballare il giovedì sera nel grande salone parrocchiale agghindato di festoni di carta velina, a incontrare le giovani amiche dei dintorni per due chiacchiere leggere sugli amori immaginari. A una sola cosa, tuttavia, le era stato impossibile rinunciare: all’immacolato piacere del canto. Cantava difatti ogni mattina, per tutto il tempo, finché non le giungeva all’orecchio la voce di sua madre che dalla cucina, usando sempre il medesimo tono e le stesse parole, la chiamava per il pranzo; cantava con la vecchia chitarra del nonno stretta forte nel grembo, come se fosse una nobile neonata da allattare. Rispetto a prima aveva solo l’accortezza di farlo senza più affacciarsi alla finestra, chiusa in un cono d’ombra dietro la tenda che il vento a tratti gonfiava, a immagine e somiglianza di una vela, ma cantava comunque, come se non farlo più comportasse l’infliggersi, mediante la desolazione del mutismo, un’eccessiva punizione, come se si trattasse anche dell’esercizio di una severità troppo furente persino contro l’omertà del suo vicolo traditore. Zia Maria amava molto la chamarrita delle Azzorre e non mancava mai di eseguirne almeno una ogni giorno, chiudendo in pace i suoi grandi occhi neri mentre le dita arpeggiavano tra le corde della chitarra in cerca della nota giusta sulla quale alla fine posare la voce. Perciò quella mattina – nel giorno che aveva scelto con grande cura per fare ciò che andava fatto – la latitanza insolita del suo canto aveva lasciato ogni cosa al suo silenzio originario per la prima volta dopo anni, fatto che qualcuno tra i meno distratti avrebbe potuto interpretare come un sicuro presagio di sventura. Ancora una volta, come accadeva ogni martedì, il maggiore Lourenço, sprofondato nella stentata frescura della sua lunga automobile nera, si stava facendo portare insieme alla moglie Zilda e alla figlia Cordélia al grande santuario di Sant’Ombrosa, custodito dai frati del Carmelo dell’antica osservanza. Il maggiore Lourenço era un grande devoto della santa, patrona locale della purezza femminile, e aveva iscritto d’ufficio alla Confraternita del santuario sia la moglie che la figlia, affinché fossero preservate dalle tentazioni della carne e tenessero una condotta della quale poter rendere conto poi senza rossori – e anche senza imbarazzi per la suo buon nome – nel giorno del giudizio universale.
Sant’Ombrosa era stata una ragazzina dell’Alentejo, si diceva di rara bellezza, vissuta nel XVIII secolo. L’agiografia raccontava che, dopo essere uscita di casa come faceva sempre per comprare un po’ di gelato di crema alla cannella del quale era particolarmente ghiotta, era stata circondata all’improvviso lungo la strada da alcuni contadini malintenzionati i quali, dopo averla  aggredita, avevano cercato in ogni modo di piegare la sua resistenza per potere infine abusare di lei. San Michele Arcangelo, mosso a compassione dalle urla disperate della giovane Ombrosa, era allora sceso dal Paradiso a combattere accanto a lei, moltiplicandone le forze ipso facto  e permettendole infine di preservare intatta la sua purezza. A dispetto dell’intervento soprannaturale e del trionfo riportato sui malandrini, Ombrosa, stremata dalla furia del combattimento e ferita da una roncolata al basso ventre, si era accasciata sul ciglio della strada e lì infine era spirata tra le braccia del guerriero celeste. La fama della sua virtù non aveva tardato a propagarsi per le campagne, arrivando in breve tempo fino a Lisbona; c’erano quindi stati i primi miracoli attribuiti alla sua intercessione e dopo un congruo numero di anni si era giunti a conferirle il titolo di santa anche in mancanza di una vera e propria canonizzazione. Mentre si costruiva il grande santuario a lei dedicato insieme all’annesso convento dei carmelitani, uno di questi, dallo strano nome di Frate Cebola, un pio fratacchione di altissima statura, aveva ritrovato per caso una straordinaria reliquia: il vello pubico di Ombrosa, che si diceva fosse stato tosato poco prima delle esequie dal curato del luogo, pervaso da santa pietà per l’eroismo della vergine martirizzata. Custodito in una teca d’argento e di vetro, il vello era perfettamente conservato e Frate Cebola, col consenso dei suoi superiori, aveva pensato bene di offrirlo alla devozione dei fedeli in una cappella della basilica specificamente dedicata al suo culto. In breve tempo era nata l’usanza del pellegrinaggio della purezza: almeno una volta all’anno, donne di qualsiasi età salivano a frotte al santuario di Sant’Ombrosa per pregare davanti al sacro vello; poi, per ristorarsi, passavano nella grande gelateria adiacente dove gli stessi frati carmelitani preparavano un costoso ma ottimo gelato di crema alla cannella, in onore della santa.
Mentre zia Maria, vestita di bianco e di nero, nel giorno in cui aveva deciso di non cantare, percorreva già da un po’ la strada che l’avrebbe portata fino alla collina del santuario di Sant’Ombrosa, la moglie e la figlia del maggiore Lourenço, entrambe col capo coperto da un velo scuro, entravano nella basilica dirette alla cappella del sacro vello, assaporando la frescura improvvisa e il risuonare illimitato dei loro passi sul marmo della pavimentazione fino alla grande luce – come di un angelo nunziante – del transetto e dell’abside.
Il maggiore, rimasto fuori, aveva guardato l’orologio e, fatti due conti, si era deciso a trascorrere il tempo morto dell’attesa pranzando da solo nella trattoria di fronte; quindi aveva fatto un cenno all’autista per ordinargli di non seguirlo e si era avviato.
Entrato nel ristorante, aveva preso posto con massiccia solennità. Il suo fiato corto si sentiva appena nel silenzio della sala. Aveva poggiato il cappello sopra una sedia accanto alla sua per poi iniziare a scrutare ogni angolo del luogo: le sue pupille da predatore erano abituate a guizzare velocemente e in breve tempo avevano messo a nudo ogni cosa, privandola di qualsiasi segreto possibile. Il cameriere – che l’aveva riconosciuto – attendeva l’ordine con un’evidente, inquieta sudditanza. Il maggiore aveva bisbigliato qualcosa, parole brevissime, come racchiuse nel volo ronzante di una mosca cavallina, e il suo pranzo gli era stato poi meticolosamente servito con sorprendente rapidità. Aveva riempito un bicchiere d’acqua sino all’orlo e si era dissetato con gusto strizzando gli occhi, poi aveva assaggiato il vino e con veemenza aveva sputato fuori dai denti un’imprecazione di disgusto. Il cameriere – che evidentemente se l’aspettava – era tornato in fretta e furia con una nuova bottiglia che stavolta con sollievo di tutti aveva incontrato il gradimento di quel cliente accasciato sulla sedia di legno e di paglia come se si trattasse di un trono. Di fronte a lui la grande bistecca grondava sangue maculato d’olio d’oliva sul fondo del piatto, fumando appena delle estreme memorie di brace. Il maggiore Lourenço aveva soppesato per intero la sua fame schioccando la lingua in bocca tra balzi quasi lavici di saliva, afferrando poi le posate per tagliare con stremata decisione il primo, consistente boccone di carne; l’aveva quindi sollevato a mezz’aria infilzato a dovere nella forchetta e infine, guardandosi bene dal portarlo alla bocca, si era sporto in avanti, tendendo a dismisura ogni muscolo del collo, e l’aveva ingoiato come se gli fosse stato offerto al volo, similmente a quanto avviene negli zoo per il pasto di una bestia feroce chiusa in gabbia. Aveva masticato con cura, a bocca aperta, in cerca dell’apice del suo tremendo rito alimentare. Dopo il secondo, il terzo, e anche il quarto boccone, però, si era fatto meno accorto, aveva imparato a fidarsi dell’abitudine in vista del traguardo, giacché la bistecca era ridotta ormai a un brandello corposo, raffreddato, vinto dalla foga famelica del ghiottone. Allora si era interrotto, aveva strappato un lembo di pane e l’aveva fatto girare velocemente sul piatto, stretto in balia di tre dita grasse e soffocanti; e subito la mollica era diventata rossa di sangue prima di sparire, senza neppure sfiorare i denti, nel profondo della gola spalancata. Quindi era stata la volta di un bicchiere di vino, tracannato sulle pendici di una pausa, di un respiro, di un tovagliolo sollevato dal grembo e portato prima sulla bocca e poi sugli occhi, laddove il sudore si era fatto tanto denso da somigliare al pianto. Il pasto del maggiore si era quietato a un certo punto su qualche foglia d’insalata profumata con olio di oliva e poco aceto bianco e poi ancora una volta per un lungo bicchiere di vino, deglutito con leggerezza inaspettata e una decenza quasi elegante. Giunto però all’ultimo boccone di bistecca, il più grosso di tutti, egli aveva rotto ogni indugio e, trapassandolo a forza con la forchetta, l’aveva azzannato masticandolo troppo poco, triturandone appena con molare leggerezza la superficie croccante e caramellata così come Maillard comanda, e infine l’aveva deglutito, quando era ancora quasi intero, senza fare i conti col tradimento delle dimensioni e finendo per trovarselo lì, a metà strada, come un cattivo scherzo irriverente. Col petto contratto e impedito, quell’uomo tanto imponente aveva cominciato a tossire con inaudita violenza, prigioniero della sua preda, dilatando i suoi occhi vagamente bovini e scosso per intero da tremori ormai fuori controllo. Era stato allora terribilmente brutale con se stesso picchiandosi lo sterno con violenza prima di caracollare, di piegare il tronco in un’ansa disperata, sbevazzando prima del vino e poi un sorso d’acqua e quindi ancora acqua finché quel boccone stregato, così come all’improvviso l’aveva minacciato, aveva cessato d’un tratto di essere un pericolo per la sua sopravvivenza ed era disceso, con tanto di liberatoria arrendevolezza, verso il suo ovvio destino di digestione.
Il maggiore Lourenço, tramortito da un sollievo agghiacciante, si era accasciato all’indietro sulla sedia respirando sempre più profondamente, per provare il brivido intero di quella sua mezza resurrezione. Teneva la mano sinistra aggrappata al bordo del tavolo mentre con la destra si massaggiava piano la fronte e le tempie. Aveva chiesto quindi un caffè e un bicchierino di Ginjinha senza frutta e poi, quasi con stizza e alzando improvvisamente la voce, aveva dato l’ordine perentorio di portare via tutto, di sgomberare il tavolo da ogni visibile avanzo, perché il suo pasto era finito, perché non gli restava che pagare il conto e andarsene per sempre da quel luogo ai suoi occhi irrimediabilmente compromesso da una minaccia di sventura. Dopo aver ingoiato prima il caffè e poi il liquore, aveva rifiutato con un cenno pieno di sussiego l’offerta del proprietario che, servile, gli chiedeva di considerarsi suo ospite, pretendendo invece di pagare il conto al centesimo; si era poi ben guardato dal lasciare la mancia al cameriere – comunque visibilmente sollevato dalla fine dell’incubo – ed era uscito fuori, all’aria aperta, gustando innanzitutto sino in fondo un respiro profondissimo, contrappasso perfetto del mortale soffocamento appena scampato.
Nello stesso momento in cui il maggiore Lourenço lasciava il locale, Maria, che aveva spiato tutta la scena rannicchiata dietro una delle vetrate del ristorante, iniziava a percorrere l’ultimo tratto del ripido porticato che s’inerpicava sinuoso fino al piazzale del santuario di Sant’Ombrosa, imperturbabile nonostante le fatiche del lungo cammino già affrontato. Teneva stretto qualcosa tra le mani, un oggetto dalla forma allungata avvolto in un fazzoletto, e bisbigliava preghiere, come avrebbe fatto una qualsiasi pellegrina desiderosa di affidare la propria purezza alla protezione del sacro vello.
Nel frattempo la moglie e la figlia del maggiore Lourenço avevano terminato ogni pratica devozionale e si erano quindi ricongiunte all’uomo della loro vita – ormai ripresosi del tutto dall’incidente del ristorante – nello spiazzo di fronte al santuario. Avevano deciso che non era concepibile tornare indietro senza concludere il pellegrinaggio così come voleva la tradizione, ovvero gustando uno squisito gelato di crema alla cannella. L’antica gelateria del santuario di Sant’Ombrosa restava aperta dall’alba, dopo il canto del Mattutino e delle Lodi, fino al crepuscolo, prima dei Vespri. Erano entrati in fila, il maggiore per ultimo, accolti da un frate carmelitano basso e magrissimo, tutto ansimante di sollecitudine e di deferenza, e avevano consumato tre ricche porzioni ben ghiacciate del famoso gelato prima di uscire di nuovo sul piazzale nel momento esatto in cui Maria – che nel frattempo era sbucata fuori dal porticato delle pellegrine – li aveva visti, riconoscendo subito nella grande sagoma vestita di bianco che si stagliava sul suo orizzonte, sfrigolando per la calura insieme al selciato, l’uomo venuto fino nel cuore del suo vicolo innocente per arrestare suo padre; un gigante cattivo sbucato dal nulla col suo seguito atroce di uomini spaventosi e di grossi cani dalle zanne bene in mostra; il primo creatore di quell’inferno di grida e di latrati che, mentre tutto stava già da un pezzo ingoiando ogni cosa, era pure entrato nella sua stanza chiudendo la porta dietro di sé con minacciosa lentezza e le aveva ordinato di stendersi bocconi sopra il tavolino, rovistando poi alle sue spalle con le grandi mani ben allenate al sopruso, allargandole le gambe senza concederle neppure il beneficio minimo della pazienza, strappando ogni velo al suo pudore e infangando ripetutamente il suo acerbo desiderio di tenerezza con l’imposizione di una cattiva meraviglia, fino a portarla ancora sulla cima più spaventosa del dolore da dove si poteva scrutare oscuramente la vita come una sola, definitiva valle di vergogna. Maria aveva contenuto tutto intero dentro di sé lo squarcio secco e poi la danza macabra, interminabile e severa, di quell’osso disumano, conficcato tra la sua pancia e la voglia di tornare alla quiete, rimasta in sospeso ad attenderla, del solito canto mattutino. Alla fine infatti, quando quel gigantesco cetaceo di terra era sparito trascinando via con sé oltre a suo padre in manette anche ogni suo punto di vista felice sull’amore, Maria aveva preso la chitarra e con una voce quasi immaginata si era messa dietro la finestra a cantare l’Atto di Dolore, come aveva imparato a fare a catechismo dalle monache.
Il grande slargo antistante al santuario aveva cominciato allora a scandire i passi sicuri e precisi di Maria in direzione del maggiore Lourenço, che da parte sua, barcollando lievemente, nemmeno la vedeva avvicinarsi, mentre le due grandi torri campanarie, come destate all’improvviso dalla visione panoramica di una profezia apocalittica, si erano mosse energicamente per suonare l’Ora Nona con una certa, ansiosa solennità.
Solo una cinquantina di metri separavano ormai Maria dal grande cetaceo terrestre vestito di bianco.
A un tratto, però, l’aria era stata squarciata dalle urla forsennate delle due donne e lei si era fermata. Nessuno la guardava, nessuno aveva ancora fatto caso a lei. Il maggiore Lourenço, premendosi entrambe le mani sotto il petto, aveva cominciato a piroettare su se stesso, trascinando passi a casaccio in un febbrile attorcigliare le gambe tra un piede e l’altro. Intorno si era formato un capannello di frati carmelitani impietriti, i cui scapolari parevano tutti scossi dagli strilli disperati di Donna Zilda e della giovane Cordélia, fatti simili, per l’occasione, a sbuffi di vento. Le campane non smettevano più di suonare: evidentemente i sacrestani, non vedendo gli stalli del coro riempirsi di frati per il canto dell’ufficio divino, rifiutando qualsiasi stupore e senza porsi domande, avevano deciso di non darsi per vinti e di continuare a scampanare a oltranza. Il maggiore Lourenço si era accasciato in ginocchio, aveva perso un ultimo filo di saliva dal lato sinistro della bocca semiaperta, e quindi, dopo essersi fatto tutto molle e ciondolante, era stramazzato morto sull’acciottolato producendo un unico grande tonfo, soffice e definitivo. Morte per congestione: la digestione del pasto, lo sbalzo termico improvviso e il sorbetto troppo freddo ingurgitato freneticamente non gli avevano lasciato scampo: il gelato della Santa l’aveva ucciso.
La zia Maria era rimasta immobile, facendosi ancora più piccola e invisibile a pochi metri dal cadavere, ma, caparbia, non se ne era andata finché non l’aveva visto rimosso, portato via e certamente irrecuperabile alla vita, tra i pianti delle pie donne e le infelici preghiere dei frati. Allora aveva gettato lontano da sé, in fondo alla scarpata che costeggiava il santuario, il lungo coltello che teneva nascosto e che aveva dato un senso al suo pellegrinaggio di vendetta; quella vendetta mancata proprio alla fine, quando un’altra morte – accidentale e beffarda – le aveva sottratto la sua preda, fermando i suoi passi a cinquanta metri dall’inevitabile conclusione e impedendole così di trasformarsi in un’assassina; poi, lasciato tutto quel dolore suadente dietro di sé, aveva imboccato a ritroso i lunghi portici delle devote pellegrine.
Mentre li percorreva le era venuta in mente Ombrosa, la piccola santa che col suo gelato fatale aveva compiuto la vendetta al suo posto, quasi per incrociare un destino comune, per dare un significato reciproco a due storie di donne, una d’innocenza conservata ma senza più vita, l’altra d’innocenza perduta ma ancora senza morte. Aveva pensato al regolamento di conti che si era concretizzato comunque a dispetto della giustizia degli uomini, che mai avrebbe potuto fare il suo corso per punirlo, e le era parso che tutto ciò fosse un vero miracolo, un autentico prodigio della complicità femminile.
Per questo, dopo tanto tempo dall’ultima volta, aveva sentito salire su per la gola il gorgheggio libero di una risata e, scostando l’urgenza di tacitarsi, aveva riso, a lungo e fragorosamente, fino a casa.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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