Subito dopo la sua voce si era distesa su una morbidezza diversa, ovattata negli accenti e appena contratta dalle suture dei respiri, che si erano fatti intanto più brevi e frequenti.
“Ti stavo dicendo che mi ero decisa a vivere qui in Inghilterra, senza mantenere più alcun rapporto con la mia famiglia. Sparire senza che nessuno ti cerchi più: è un privilegio riservato a pochi, non credi? Sparire addirittura con un senso di gratitudine. Reciproca. Quella di chi se ne va e quella di chi gli consente di andare via. Una perfezione che non ammette domande giacché in quanto tale non ne ha alcun bisogno. Perché è la vita, se la si lascia fare il suo mestiere, il modo migliore di abituarsi alla morte. Una corriera, e poi un treno: li avevo presi che ero ancora quasi un’adolescente, almeno dal punto di vista dell’anagrafe. Chilometri e chilometri messi caparbiamente tra le mie origini e tutto il resto. Ma i pochi soldi che ero riuscita a portare con me erano finiti presto e allora avevo cominciato a darmi da fare, a lavorare, così alla buona, senza troppe pretese né particolari competenze, dove mi capitava: passavo dalle pulizie negli appartamenti e nei locali alla consegna della spesa a domicilio, e ricevevo salari arrangiati a cottimo, quasi delle mance, e mai con un contratto regolare scritto nero su bianco. Vivevo in Inghilterra ma anche per l’Inghilterra io non esistevo. Eppure ciò che mi aveva spinto ad andarmene dal Portogallo, in cerca di un modo differente, trasandato e profondo, di essere me stessa, quel dolore che si era fatto prima abitudine, poi pian piano consapevolezza e che infine si era riscattato addirittura sotto forma di progetto, era diventato il punto di fuga di una prospettiva originale nell’invenzione della mia sola opportunità di stare al mondo. Ancora non lo sapevo, non lo comprendevo, ma era così già da tempo, a partire da quella terribile anomalia che era stato il giorno del dramma di cui non ti ho ancora parlato e che mi aveva insegnato a deragliare e, sbandando, anche a capire meglio l’indole autentica del mio destino. Camminavo quindi lontano da me e nei pressi del mio futuro con la timidezza di chi è dolcemente inconsapevole ma sfoggiando nel frattempo un passo da donna già fatta, magnifico per conto suo, del quale in molti si erano accorti e che, pur rimanendo asserragliati dietro l’accettabile leggerezza dell’ironia, una caratteristica questa che rende davvero inconfondibile il perbenismo inglese, non mancavano di guardare con ammirazione. Una volta il proprietario del pub per il quale facevo le pulizie ogni sera dopo la chiusura mi aveva chiamata nel suo ufficio. Diceva di volermi aumentare la paga giacché avevo sempre lavorato bene e senza battere la fiacca. Ero sinceramente felice per quei complimenti, anche perché sentivo di meritarli tutti. Poi però, una volta chiusa la porta, mi aveva rivolto uno strano sorriso, chiedendomi di avvicinarmi mentre si apriva la patta dei pantaloni. Era un uomo disgustoso, dal ventre gonfio e col viso circondato da una barba rada, ispida, grigia un po’ ovunque, e continuava a sorridermi. – Non dirmi che non ti sei mai accorta di come ti guardo fin dal primo giorno che lavori qui, – mi aveva detto; – Veramente no, sono sincera … – gli avevo risposto. Allora mi aveva fatto cenno di avvicinarmi di più per tirarglielo fuori e io, serrando prima gli occhi, gli avevo obbedito. Dopo pochi istanti ce l’avevo in bocca, ancora molliccio, e lo stavo succhiando, in ginocchio, tenendo sempre gli occhi ben chiusi. Senza mai smettere l’avevo sentito diventare duro tra le labbra e quindi avevo continuato e continuato e continuato anche mentre l’ascoltavo ormai ansimare forte, sempre più forte, anche quando lui mi aveva messo le mani sulla testa spingendomi con forza tutto quanto poteva in fondo alla gola. Solo allora avevo aperto gli occhi per guardarlo, per sfidare di fronte alla mia coscienza e al peggiore tra i miei ricordi la vista del suo irrimediabile squallore e l’avevo fatto sorridendo, anzi sogghignando, proprio mentre mi godeva in bocca, come se per me si trattasse di un riscatto, della scissione quasi chirurgica tra la violenza, che restava a lui, e il potere, che invece passava a me. Nei mesi successivi questo fatto si era ripetuto molte volte, più o meno sempre nello stesso modo, fino a diventare un’abitudine, una sorta di periodico appuntamento. Quando lui mi chiamava, io andavo nel suo ufficio, mi inginocchiavo senza aspettare neanche che me lo chiedesse e facevo ciò che dovevo fare. Col passare del tempo avevo iniziato a considerarla una cosa normale, un gesto come un altro, privo di conseguenze particolari. Tra l’altro questa faccenda mi stava facendo guadagnare di più, molto di più, e all’improvviso potevo permettermi addirittura qualche lusso. A un certo punto avevo smesso anche di chiudere gli occhi quando quella specie di rito notturno cominciava, e invece lo guardavo bene, e lo vedevo godere, il maiale, e mi sentivo sempre più potente. Non esitavo mai: mi stavo progettando come una sfida vivente alla sua forza per potermi trasformare al meglio nella sua debolezza. Una volta poi mi aveva proposto di andare oltre, ma non col tono di chi chiede il consenso, piuttosto con l’intenzione di avvisarmi, perché, arrogante com’era, dava per scontata fin dall’inizio se non la mia disponibilità almeno la mia soggezione. Mi aveva fatto alzare la gonna e abbassare le mutandine mentre lui si infilava un preservativo e quindi aveva iniziato a penetrarmi. Io mi ero concentrata solo sul ritmo e la profondità del mio respiro, ripetendomi col pensiero che ero la più forte e che era tutto a posto. D’altra parte quell’uomo dal ventre gonfio di birra non aveva il fisico per reggere a lungo lo sforzo: erano bastate infatti poche spinte, appena un po’ brutali, prima che si afflosciasse su di me col fiato rotto. Forse ti sorprenderà sapere che in quel momento avevo pensato con rammarico che stesse per avere un infarto. Ma non si trattava di una preoccupazione caritatevole. In realtà non mi andava l’idea di dover rinunciare all’improvviso agli extra che mi dava per quelle prestazioni. Mi facevano molto comodo e mi ero abituata a vivere senza le ristrettezze di una volta. Per fortuna poi si era ripreso, si era versato un whisky, si era messo a sedere e, respirando ancora un po’ affannosamente, mi aveva pagata davvero molto bene per il nostro primo rapporto sessuale completo. – Questo – mi aveva detto porgendomi il denaro – è il nostro segreto. Io ti pago e tu tieni la bocca chiusa, tranne che in certe circostanze tra di noi, è ovvio (e qui, credendo di essere stato spiritoso, aveva riso di gusto). Mi raccomando: silenzio assoluto con chiunque. Io sono un uomo sposato, ho tre figli, e mia moglie ci metterebbe niente a lasciarmi in braghe di tela per una cosa simile, mi spiego? – Certo che ti spieghi, avevo pensato mentre annuivo, ti spieghi benissimo, lurido porco. Ero sempre più forte, più grande, mentre lui, l’uomo che mi usava pensando di avermi in suo potere e di potermi comprare senza correre rischi, diventava piccolo e debole, incredibilmente vulnerabile. Mi divertiva vederlo così. In quel nostro gioco al massacro ora chi aveva tutto da perdere era lui, che però non poteva fermarsi, non ci riusciva, e soprattutto non si rendeva conto che invece avrebbe dovuto farlo all’istante. E allora non avendo alternative si raccomandava, facendo ancora discorsi arroganti che tuttavia nel tono intorbidato della voce, screpolato di continuo da minime fratture tonali, tradivano la loro inclinazione fatale alla supplica. Mi implorava con parole boriose rendendo goffa così tutta la sua superbia! Quasi ogni sera io mi inginocchiavo ma tra noi due chi pregava sul serio, chi finalmente si sentiva davvero precario e impaurito era solo lui. – Hai mai pensato di metterti un completino sexy? Staresti bene in reggicalze e guepiere, sai? Mi piacerebbe tanto vederti così … – aveva soggiunto una volta, sorridendomi mentre cercava un’intonazione sempre più melliflua e carezzevole soprattutto per rassicurare se stesso, intrappolato com’era tra la cecità del desiderio e quella dell’inquietudine, con l’apparenza di un clima del tutto disteso. Per rafforzare maggiormente quella sensazione di confidenza mi aveva allungato sul tavolo qualche banconota stropicciata: – Prendi questi dai, e compra qualcosa di carino, fammi restare senza fiato… – E io avevo accettato, ricambiando il suo ghigno e passandogli anche la lingua dietro l’orecchio, proprio come avrebbe fatto una vera puttana. A quella mia spudoratezza lui aveva reagito ridendo e infilandomi una mano tra le gambe. Io non mi ero opposta, anzi l’avevo addirittura incoraggiato, mettendo anche la mia mano sulla sua. – Sei una vera puttanella, – mi aveva detto sempre più disinibito a causa del dileguarsi delle sue preoccupazioni tra i fumi di quella specie d’ebbrezza sentimentale che rende inconsistente e quindi del tutto accettabile l’incoscienza. – Certo che lo sono… – gli avevo risposto. Volevo lasciargli credere che fossimo complici ma sapevo che ormai era in trappola. Infatti la sera seguente avevo già indosso il mio primo, costosissimo, completo sexy: un corsetto steccato in tessuto satinato rosso, con inserti di pizzo nero e, in fondo, quattro reggicalze; avevo comprato anche una mutandina semitrasparente perfettamente coordinata, calze nere 20 den e sandali con cinturino di metallo e tacco 12.7. Dopo aver fatto le pulizie nel locale come al solito, mi ero chiusa in bagno per indossare tutto quanto prima di andare da lui. Ricordo che mentre mi preparavo non mi sentivo affatto emozionata, che anzi ero certa di aver stravolto definitivamente la natura della mia vecchia piaga in quella di un tatuaggio, conquistando per la mia cicatrice il significato nuovo di una decorazione: stavo usando l’essenza del mio dolore per farmi bella. Uscendo dal bagno l’avevo visto subito di fronte a me, già seduto a sbavare sulla solita poltroncina in pelle bordeaux sbrindellata dappertutto: giocava a fare il sultano e io stavo al gioco, perché sapevo che era un gioco al massacro: il suo. – Che pelle liscia che hai … sei incredibile -. Era senza ritegno, ormai mi pareva quasi di sentirlo grugnire. Me l’aveva dato in bocca, come faceva sempre. – Succhia e guardami, – aveva detto. Ma certo, pensavo, io succhio e ti guardo, bestia; non ho più smesso di guardarti e lo sai. Aveva goduto prima colpendomi in fondo alla gola, poi sporcandomi la lingua e infine macchiando le mie labbra. – Sei una troia, – aveva farfugliato lui di nuovo. – Sì, lo sono, – avevo replicato io ancora una volta compiacente. Voleva che glielo facessi tornare duro. Aveva una gran voglia di scoparmi con quel completino addosso, lo capivo benissimo. Dalla radio accesa erano venute fuori all’improvviso le note di “Down in Mexico” dei Coasters. – Balla per me! -. Sì che ballo per te, mi ero detta, pensando però le mie parole come se avessero smesso di essere tali, come se si fossero semplificate tutt’a un tratto, riducendosi alla condizione elementare di schegge aguzze di vetro sottile conficcate senza provocarmi dolore nella mia mente; e ti metto anche il mio culo in faccia per tirarti fuori tutto quello che sei e che hai sempre nascosto, che vorresti ancora nascondere, che cerchi di giustificare con parole vuote, testarde per necessità, ma che di sprezzante conservano oramai soltanto il vuoto del tono. Alla fine della canzone aveva una voglia che gli gonfiava gli occhi e le vene del collo che sussultavano come percosse dalla violenza delle pulsazioni. Si era infilato il preservativo con la mano che vibrava forte per l’eccitazione. A un certo punto pareva quasi che non gli riuscisse per quanto tremava. Me l’aveva messo dentro così, da seduto, chiedendomi di muovermi, di prenderlo, di farlo scomparire tutto nel mio corpo, e io l’avevo accontentato senza pensarci troppo, con l’inerzia un po’ compiaciuta di chi conclude un buon affare, come se di fronte allo sguardo indifferente dei miei pensieri si fosse a un tratto messa in luce un’opportunità che avevo solo vagamente intravista e magari anche sottovalutata, che fino a quel momento era stata in parte sbiadita dalla meschinità della lentezza con cui si erano diradate in me le ultime velature dell’ingenuità e del pudore, una possibilità sospinta con rabbia dalla convinzione che al mondo tutto ha un prezzo e quando non ce l’ha vuol dire che non vale niente.
Queste mie considerazioni, che in seguito avrei chiarito e condotto alle estreme conseguenze, allora erano state però bruscamente interrotte da una circostanza in qualche modo imprevista: il maiale si era accorto della presenza di un mio amico nascosto dietro il vetro della finestra. Il suo sguardo, fino a quel momento ciondolante di piacere tra i riccioli paglierini delle sclere, era stato attratto dalla piccola feritoia che avevo lasciata aperta e dalla sagoma dell’uomo che fin dall’inizio ci stava scattando fotografie a raffica. Non aveva fatto caso subito a quel varco, frastornato com’era dalla voglia del mio corpo, una voglia che si ostinava a trattare con tono sprezzante, come per ridimensionarla dentro di sé, per addolcirla in una sorta di diversivo compatibile tanto con la sua indole di animale maschio quanto con la sua coscienza di cittadino rispettabile. Aveva commesso un errore fatale, un piccolo errore che però gli costava una debolezza definitiva, uno sbaglio minimo che da quel momento l’avrebbe comunque condannato a pregare in ginocchio ogni volta che io gliel’avessi chiesto. L’angoscia, però, non era riuscita a fermare il suo orgasmo ormai troppo ravvicinato per essere ricacciato indietro, ma ad accompagnarlo stavolta non c’era stato il solito urlo animalesco di appagamento bensì un vero grido umano di disperazione, perché la bestia, quando si rende conto di essere finita in gabbia, cerca dentro di sé qualcosa di rassicurante, un’analogia da condividere col suo cacciatore. Gli avevo quindi sfilato il preservativo svuotandolo per intero sulla mia lingua, perché stavo diventando sempre più brava a fare certe cose, appena qualche istante prima che lui si alzasse di scatto dalla poltrona e mi mettesse una mano intorno al collo, spingendomi poi con le spalle contro il muro. Allora l’avevo fissato piena di strafottenza e senza manifestare alcun timore per la sua forza fisica, mentre le mie labbra si piegavano con studiata lentezza nell’ennesimo ghigno decorato dagli avanzi del suo seme. – Tu lo sapevi vero? Chi diavolo è quell’infame che ci sta fotografando? Un amico tuo, uno schifoso bastardo che è d’accordo con te, giusto? – mi aveva urlato in faccia con una strana voce, che gli saliva appena fuori dalla gola prima di essere ingoiata di nuovo da una tosse torbida e gorgogliante, lasciando traccia di sé solo in un’eco fetida d’alcol e in qualche gocciolina di saliva sparsa qua e là sul mio viso. Io non potevo rispondergli dato che non riuscivo a respirare per quanto stringeva il mio collo con la sua grossa mano da bestia, ma potevo sempre continuare a sorridere, e così avevo fatto, senza risparmiargli nulla dell’assoluta debolezza nella quale lo stavo sfrontatamente precipitando. – Allora? Siete d’accordo tu e quel maledetto vigliacco là fuori o no? -. Gli avevo risposto facendo un cenno affermativo con la testa, senza smettere mai di sorridergli. – Guarda che io ti ammazzo, non devi farmi scherzi! – era stata la sua replica minacciosa. In quel momento avevo preso coscienza del fatto che stavo rischiando sul serio. La mia morte era una possibilità che era lì, appena dietro l’angolo. Ma in fondo non è sempre così? Magari non è altrettanto evidente in un momento qualsiasi, perché evitiamo di pensarci, ma la verità è che ogni giorno ci capita la stessa cosa. Io allora me ne stavo solo rendendo conto, stavo appunto guardando in faccia la verità, che aveva le fattezze livide di rabbia di quel grosso animale in trappola, sempre più debole e proprio per questo davvero pericoloso. Avevo paura di morire, lo ammetto, ma sapevo anche che non è necessario voler morire per scegliere di non vivere a qualsiasi costo. E allora avevo trovato tutto il coraggio necessario, e la freddezza sufficiente per arrivare infine a vederlo piegato, vinto, consapevole del fatto che ammazzarmi non gli sarebbe servito a niente, disposto a pagare per avere quel rullino fotografico, per tornare tranquillo nella sua tana, dalla sua femmina e dai suoi piccoli, e per farlo anche da uomo fedele e sincero. Tutto sommato aveva deciso di arrendersi al ricatto per nascondere la bestia, affinché il silenzio mentisse una volta di più meglio delle parole: l’animale era sceso a patti soltanto per poter continuare a fingersi umano. Ma la nostra storia non era finita ed entrambi lo sapevamo bene: la debolezza che aveva provato in quei momenti l’avrebbe presto riportato a me, disposto a pagare di nuovo per avermi. Si era sentito in trappola, trasformato in una vittima, e questo, al di là della disperazione che suo malgrado aveva dovuto sperimentare, in una zona più oscura delle altre ai margini della sua coscienza, una specie di bassofondo periferico, di East End dell’anima, gli era piaciuto, aveva creato un vincolo, la catena, il collare della bestia. Oppure, come preferiscono dire le brave persone, una relazione d’amore. Anche per questo, credimi, io davvero non sopporto le vittime: una volta accettato il loro stato, sono più pericolose di qualsiasi carnefice, diventano un ricatto vivente e senza tempo, che il loro perdono rende addirittura più indisponente. Se ci rifletti, tutto il successo di Gesù Cristo si fonda proprio su questa raffinata arroganza. Ma torniamo a noi, perché non voglio rischiare di annoiarti con pensieri che dopotutto sono soltanto miei. Appena uscita avevo spartito col mio amico, il complice che ci aveva fotografati, il pacco di banconote che il mio ex datore di lavoro mi aveva messo di malavoglia tra le mani, e proprio in seguito a quel semplice gesto nel quale onoravamo il nostro accordo, con la tipica naturalezza delle cose giuste che non possono essere anche buone, tutti i miei vaghi pensieri precedenti si erano a un tratto chiariti e ricomposti alla perfezione nell’idea che in quel modo potevamo vivere entrambi, almeno per un po’, restando insieme senza farci mancare niente, io facendo la prostituta per clienti importanti e molto danarosi e lui col ruolo di mio protettore gentile, elegante e fidato, fino a raggiungere poi il tempo giusto, come accade alle mille fioriture della primavera quand’è il momento di abbandonarsi al traboccare estivo dei frutteti, per scorrere anche noi oltre l’inerzia dolce e avventurosa della giovinezza, passando dal romantico affetto dell’abitudine all’innamoramento rispettabile. Quel ragazzo, che allora era un ribelle ansioso e disordinato, magrissimo, grande fumatore e bevitore di birra, con un ciuffo perennemente arricciato sulla fronte e l’aria un po’ felice e un po’ disperata, era tuo zio Adrian, mio marito. Se quando avevo lasciato la mia famiglia volevo a tutti i costi rinascere altrove, dopo quella sera sapevo anche come fare. Nei giorni successivi avevo dato libero sfogo alla voglia irrefrenabile di riempire il mio armadio di vestiti alla moda, e con Adrian, in preda all’entusiasmo, avevamo affittato un vero appartamento, a Brixton, in Electric Avenue, visto che prima lui viveva in una specie di ostello per studenti e io in una stanza ammobiliata a pochi isolati dal pub del tipo che avevamo incastrato. Per potermi permettere uno stile di vita tanto diverso, per poter cambiare davvero tutto, dovevo cercare nel retro buio della città, nel suo doppio fondo, là dove ansimavano i turbamenti oscuri, le passioni inconfessabili e le prigioni segrete di fantasie costantemente contraffatte dalle apparenze di una quotidianità esemplare. Dovevo attendere soltanto che il crampo della rispettabilità si facesse troppo doloroso, che diventasse insostenibile, per poi mungere senza ritegno quelle bestie spaurite offrendo loro una via di scampo illimitata e una quiete imprevista. Vedi, a questo mondo ci sono cose che non si possono fare e altre che invece non si devono fare, e delle prime, credimi, non importa a nessuno. Per questo avevo deciso di permettere a quelle anime in pena di fare del mio corpo tutto ciò che volevano. Purché mi pagassero profumatamente.”
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti