L’UOMO DISINCANTATO – Non essere altro che un nome.

Quei giorni inermi, con punte lancinanti di colore simili ad aquiloni che scalfiscono il cielo bianco ma sporco dell’inverno cittadino, quelle ridicole giornate estreme perennemente tentate dallo struggimento e dal pianto segretissimo e accorato, che sembrano fatte apposta per il suono di un carillon, per il brusio della pioggia sopra i parabrezza appena dietro l’ipnotico moto perpetuo di un qualsiasi tergicristallo cigolante, ecco erano proprio quelle, esattamente quelle giornate lì, che Elias preferiva per le sue passeggiate più lunghe e disarmanti. Era ormai certo che Milica lo tradisse col professor Wittgenhauer ma sapeva pure che il fatto non era dopotutto così importante, che era anzi addirittura futile, come poi tutta quella loro sottilissima storia sorretta unicamente da un eccesso di parole, quasi fosse una sorta di favola scritta di proposito per essere terrorizzata dall’uomo nero – che dal canto suo se ne restava nascosto a tradimento chissà dove – e infine archiviata, come un poliziesco “cold case”. Quindi per lui a quel punto ogni certezza non poteva che essere un equivoco. Milica, per esempio, non era che un nome, un nome senza dubbio bellissimo e carico di suggestioni, ma pur sempre nient’altro che un nome. Soltanto quel saccente presuntuoso di Wittgenhauer poteva credere alla concreta possibilità di accoppiarsi con un nome. Rassicurato da questi suoi convincimenti, Elias se ne andava dinoccolato fino ai laghetti, non indifferente tuttavia a una contraddittoria, ironica tristezza, e laggiù balbettava con le anatre, baciava sul muso un cane randagio, tirava sassi ridacchiando al vagabondo addormentato sotto i cartoni, sapendo bene che niente stava accadendo per davvero – almeno non con modalità moralmente vincolanti – e che lui stesso non era che un nome, e in quanto tale senz’altro irresponsabile, solo impigliato insieme a tanti altri nella rete d’inchiostro di registri anagrafici di frodo. Godeva così, sentendosi fino in fondo senza capo né coda, lo sconfinato incanto di quei giorni dalla rotondità quasi perfetta, i suoi favoriti, giorni stralunati come il sogno di qualcun altro ma pur sempre malinconici di una ben rivendicabile e precisa sottigliezza.
A volte Elias concedeva anche timidi brandelli di voce a pensieri particolarmente deliranti mentre, ingolfato nel grembo del suo cappotto, se ne andava a passeggio in cerca di un vero amore, normale e interessato: “L’intelligenza indomita delle cose inanimate ci sovrasta, noi che guizziamo vivaci e con misura, come pesci d’acquario, tra luci bianche e blu e chiacchiericcio di bolle dirette in verticale in superficie, cioè il pelo tremante che ci sovrasta, per dare testimonianza del nostro miserabile fondale all’indifferenza dell’universo!”
Alla fine, però, egli poteva contare la vera bellezza delle cose soltanto sulla punta delle dita di una mano: quella bianca e perfetta di Milica. E così risorgeva sempre tra di loro, in quei momenti di spietata indigenza di numeri a disposizione, un’infinita pietà; e Milica ogni volta era per Elias come un interminabile ritorno a casa, l’apice, l’estremità e la profondità della bellezza, molto al di là del visibile e un millimetro appena al di sotto dei suoi sogni migliori.

(estratto dal secondo volume)

©Andrea Rossetti

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