L’idea dell’esistenza dell’uomo nero nasceva nei bassifondi dell’istintiva convinzione che ci fosse un vuoto, un grande vuoto profondamente silenzioso tra gli uomini e le cose, una specie di spazio strappato alla voce nel quale a volte, in assenza di gravità, le parole riuscivano a restarsene in sospeso, come astronauti o palloncini colorati o bolle di sapone, fino a correre addirittura il rischio di essere risucchiate, poiché sempre più rarefatte e leggere, negli utili miraggi della religione. Fra tutte le possibili parole, infatti, “Dio” era l’unica che in un ambiente simile non fosse mai in grado di galleggiare: la sua piumata leggerezza, contraddicendosi in un vortice famelico di affermazioni e negazioni, la obbligava sempre a precipitare dogmaticamente verso il basso, esprimendo senza la benché minima grazia una pesantezza equivoca e incomprensibile, ansiosa solo di toccare il fondo, perché da qualche parte, sulle pendici più caritatevoli di quel gorgo, apparivano qua e là anche dei tenui bagliori, sufficienti a giustificare la speranza che almeno i fondali sabbiosi del vuoto non potessero essere costituiti che di purissima polvere di fede.
Eppure il nome di Dio era rotondo, aveva dentro le fondamenta stesse di tutti i sogni possibili: una meraviglia obbligata, però, a essere deludente, e in questo impietosa. Ovunque c’era buio in mezzo a tanta luce perché era la luce stessa a fare ombra, perché una vera ferita, una ferita che si rispetti, ferisce sempre e solo un’altra ferita, Stava in questo la monotonia paradigmatica del dolore, identica a suo modo a quella della dimenticanza così come a quella del ricordo, tanto simile al profumo screziato delle ali sfrigolanti sotto il sole delle migliori, e quindi anche delle più transitorie, tra le farfalle. Rimaneva qui, là e ancora laggiù, inspiegabile ma ovvia come i giorni di festa stampati in rosso sopra i calendari; e aveva il sapore dei fichi maturi appesi a metà strada fra i rami degli alberi e la molteplicità burrascosa dei venti. Perché alla fine solo chi sopravvive alla verità rara di un’ideale, assoluta carezza, trova poi anche l’ipotesi buona per andare oltre, addirittura quella che a tempo debito può sembrare tutt’altro, persino l’assurdità deforme di un ritornare indietro.
In questa mancanza assoluta di un significato definitivo, di qualcosa che almeno somigliasse alla direzione affidabile di una sintesi, giungere alla conclusione di dover ammettere che, sia pure all’infinito, un omicidio e un parto fossero in sostanza la medesima cosa non poteva che implicare una seria minaccia al senso comune e quindi, sebbene con tutta l’ombra e le trasparenze del caso, anche l’uomo nero.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti