L’UOMO DISINCANTATO – Di volto in volto.

Milica si alzava al mattino saltellando dal caldo del materasso ai rigori gelati del pavimento, tutta rocambolesca in camicetta e mutandine, queste ultime giorno dopo giorno sempre più sottili e avviate a conquistare in breve tempo la massima essenzialità geometrica della loro forma.
Il profumo del caffè si sviluppava nella stanza in spirali ordinate e vortici repentini, come una serie di radiografie di conchiglie vuote, a tratti lezioso e sempre e comunque cortigiano (c’è infatti qualcosa di naturalmente servile nel caffè, il profumo mattutino dell’anima ossequiosa di un maggiordomo in livrea).
Accanto a lei nulla riusciva mai a essere davvero straordinario – e, d’altra parte, rispetto a cosa avrebbe potuto anche solo sembrarlo? – e niente in lei orbitava anche soltanto in forma di semplice suggestione intorno a un talento specifico o a una generica attitudine alla creatività – diventa infatti fatalmente ordinario ogni attributo educato alla ripetizione, a prescindere dalla sua eccellenza o dalla sua mediocrità – ma in qualche modo Milica sapeva fare comunque di necessità virtù sino a rendere relativamente raro ogni giorno della propria vita limitandosi a rispettare un unico, semplice principio: mai accordare tempo ed energie alla tentazione di evolversi in una creatura volitiva.
A volte si concedeva lo sfizio pericoloso di sentirsi un po’ cervellotica, più che altro per fare il verso a un buon numero di amici e conoscenti, non ultimi Peter, il professor Wittgenhauer e lo stesso Elias. Ricordava – per esempio – che San Paolo aveva scritto ai Corinzi che nell’aldilà gli uomini avrebbero visto faccia a faccia il mistero di Dio, che era poi lo stesso che sulla terra potevano scorgere invece solo oscuramente, riflesso in uno specchio; e le veniva in mente, giacché si scrutava ogni mattina, nuda e a figura intera, nel grande specchio barocco che aveva di fronte, che il tanto celebrato enigma di Dio fosse niente se paragonato a quello del volto di un essere umano. Rifletteva, guardandosi, sul fatto che i suoi occhi non avrebbero mai visto davvero il suo volto, se non per sempre nella cornice amara di uno specchio, e quindi rovesciato, sfregiato dalla necessità inesorabile dell’inganno. Il segreto definitivo del proprio viso era per Milica un buio abisso di fronte al quale l’oscurità di Dio, ridondante com’era per consuetudine di conclamate speranze d’illuminazione, non poteva fare altro che accendersi e consumarsi come un cero.
Alla lunga, però, giocare a fare la cervellotica senza accogliere la necessità di essere anche un po’ volitiva, si rivelò una strategia snervante.
Fu proprio per questo motivo che a poco a poco Milica si chiuse in se stessa e prese l’abitudine di attendere ogni giorno seduta, anzi quasi accasciata e sempre inconsapevolmente ancora nuda, il far della sera, quando, dopo il tramonto quotidiano del mistero di Dio, si sarebbe sentita finalmente in diritto di pretendere di nuovo da Elias, cioè dall’altro da sé, dall’unico vero cervellotico volitivo, il racconto perfetto e dettagliato del proprio viso.
Andava scoprendo così le ragioni della letteratura, trovava in quel modo, sebbene appena abbozzata, la favola di se stessa, confusa in mezzo a quelle d tutti quanti gli altri, come uno dei numeri della cinquina vincente tra i novanta in gioco nella lotteria.
Davanti a tanta perfezione, al tempo stesso distratta e precisa, Elias si sentiva dal canto suo sottinteso, vedeva se stesso come un carente monaco novizio avviato a un’esistenza di contemplazione a forza di buie preghiere da cripta e liturgie notturne da deambulatorio e, in un certo senso, solo il sedere della sua amica gli rendeva il Dio dei suoi padri un po’ più oggettivo.
Giorno dopo giorno, le sue estasi di fronte al piccolo seno chiaro di Milica duravano sempre più a lungo, ben oltre il tempo banale dell’eccitazione fisica, sconfinando fino a un dolore minimo e dandogli l’impressione che uno spillo sottilissimo stesse pungendo il fondo del suo sguardo. La perfezione pallida di quelle due piccole curve che, fasciate dal primo sole dell’alba, ombreggiavano appena un chiaroscuro latente, era al tempo stesso esplicita e segreta, verginale e spudorata. Elias le sfiorava con la punta del dito indice, ne saggiava la consistenza perentoria,  i due vertici struggenti colorati di rosa antico, e quindi vi abbandonava le labbra con composta ansietà fino a baciarle per intero, mosso da un amore assolutamente profano e tuttavia stupito da quanto di sacro quello, con smisurata precisione, riuscisse a contenere.
“La nostalgia ignora il rimpianto. Si rimpiangono le cose perdute ma si ha nostalgia solo di quelle che non si sono mai pensate e conosciute…”: un giorno Milica pronunciò queste parole all’improvviso, di getto, mentre se ne stava in piedi, completamente nuda, raggomitolata tra le tende della grande sala colma di scatole da trasloco indifferenti alla propria vocazione alla partenza o all’arrivo, nel mezzo di una sorta di abbagliante annientamento di tutti i colori che non fossero filiazioni immediate del bianco e del nero. La sua silhouette era un’ombra intensa di grigio sul biancore sconfinato di ogni cosa al di qua e al di là della grande finestra dall’aria vagamente zarista.
“Non camminare scalza sul parquet ,” le disse allora Elias, “metti almeno un tacco dodici, lucido, bianco, da sposa…”
“La neve adesso è folta e sembra nebbia…” rispose lei lasciando che un lieve rimorso prendesse la forma semplice di un sorriso sulle sue labbra. “Quanta luce così poco accecante…si vede tutto, si vede troppo, in questo modo siamo veramente senza segreti. Usciamo? Dai, che almeno le impronte dei nostri passi nella neve se ne scorrano via parallele, che almeno loro non si incontrino mai, che almeno loro possano cercare di essere felici!”
Scorgendo Milica che, senza rivestirsi, stava calzando un paio di bellissime scarpe bianche da sposa, Elias avvertì un desiderio sconsiderato di eiaculare. Poi però gli sovvenne l’immagine del bianco denso del suo seme e pensò ai tanti, tangibili eccessi di bianco di quelle strane giornate e, ritenendo che potessero e dovessero bastare, si astenne dall’andare oltre.

(estratto dal secondo volume)

©Andrea Rossetti

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