L’UOMO DISINCANTATO – Le snervanti complessità involute dell’amor profano (2)

D’altro canto, da quando frequentava il professor Wittgenhauer, Milica cercava di trattenersi il meno possibile in casa da sola con Elias. Il suo mutamento interiore, nonostante rimanesse ancora assolutamente in sospeso nel merito, chiarificato soltanto in qualche dettaglio marginale come un paesaggio qualsiasi al mattino quando pare debba rimanere impigliato per sempre nella ragnatela di una foschia fatta di microscopici ricami d’acqua che se ne restano lì a tremare a mezz’aria, le imponeva una distanza anche fisica, tangibile, necessaria affinché la trasformazione in atto – quali che fossero la sua natura e il suo punto d’arrivo – potesse avvenire in un contesto pienamente rassicurante dal punto di vista emotivo.
Milica cercava istintivamente chiavi di volta risolutive, che però solo la messa a punto e l’applicazione di un metodo razionale le avrebbero potuto davvero promettere, e poi complicate garanzie di stabilità accordabili anche col movimento e la metamorfosi che erano in atto; si sentiva parte integrante dell’emozione che c’è su una nave che si sta disincagliando dai ghiacci ma nel contempo faceva fatica a tenere sotto controllo l’assiduità – che supponeva comunque utile – di un suo personale imbarazzo e di una tiepida frustrazione, che si manifestavano l’uno nel battito in costante crescendo delle vene nei suoi polsi e l’altra nell’inspiegabile accalorarsi improvviso delle sue guance altrimenti bianchissime, senza che vi fosse però un movente definito e quindi solo per via di un’inerzia sentimentale, tanto incondizionata da sfiorare a tratti, fortunosamente, l’essenza stessa dell’allegria. Era questa una sorta di tepore assoluto che si propagava lungo il suo corpo tendendo ogni articolazione come fosse una molla pronta ad azionarsi allo sbocciare dell’emozione suprema: un vortice piacevole di speranza perfettamente attrezzato per rimbalzare dopo ogni urto contro i più vaghi tra i sensi di colpa, che se ne stavano in disparte qua e là, come tante matasse di lische di pesce ben spolpate.
Per evitare una sempre più indesiderata e problematica prossimità, Milica spediva Elias fuori casa ogni volta che poteva: a fare la spesa, a comprare le sigarette, a correre al parco per tornare in forma, insomma ogni scusa era buona per non averlo tra i piedi. Lui, che indovinava perfettamente il comune denominatore di quelle pressanti richieste di allontanamento divenute oramai quotidiane, finiva comunque per accondiscendere, affidando il suo disappunto di puro principio – che nei fatti era già una compiuta rassegnazione – a una generica stizza, circoscritta ai soli gesti e al tono della voce. Elias si sentiva già del tutto estromesso dalla vita di Milica e ciò che ancora restava in piedi di quanto insieme a lei aveva desiderato – o forse soltanto sospettato di desiderare – si era ridotto, dall’avvento di quelle nuove circostanze in poi, a un risicato premio di consolazione, per nulla rassicurante e tra le altre cose anche completamente sfigurato da un viscido sentimento di vergogna.
Durante quei forzati stati di esilio, non riconoscendo ovviamente la reale necessità dei compiti che aveva ricevuto o che si era addirittura dato controvoglia, trascorreva le ore seduto da solo su una panchina nel piccolo giardino detto dei cigni, di fronte al laghetto che spesso trovava ghiacciato, raggomitolato dentro pesanti cardigan e loden da vecchio tirolese, avvolto da sciarpe coloratissime e smisurate e obbligato anche a indossare degli inverosimili berretti per prevenire i mal di testa e gli attacchi di sinusite dei quali soffriva di frequente. Per la gran parte dell’anno, specie poi in autunno e in inverno, il luogo era per sua fortuna pressoché deserto: da quelle parti transitava di tanto in tanto solo qualche domestica, spesso carica degli acquisti che le erano stati commissionati dai suoi datori di lavoro e che utilizzava il parco come scorciatoia, la quale, vedendolo vestito in modo così bizzarro, allungava il passo senza fare nulla per nascondere la sua inquietudine, dimentica all’improvviso anche del peso dei colli che trascinava con sé; o al massimo poteva succedere che un poliziotto di ronda, particolarmente sospettoso e zelante, si fermasse sospettoso nei paraggi prima di iniziare a camminare avanti e indietro solamente per non perderlo mai d’occhio. In quei momenti, roso da improvvisi quanto dalla rabbia e dallo sconforto, Elias meditava addirittura di uccidere Wittgenhauer, realizzando però all’istante di non esserne capace giacché non riusciva a non tenere conto anche delle possibili ritorsioni da parte di Milica e, soprattutto, della certa e severissima condanna che gli avrebbe inflitto un tribunale. Quello stato di profondo avvilimento riconduceva quindi i suoi pensieri, anche in questo frangente, alla misurazione della distanza abissale che c’era tra le sue attitudini e quelle dell’uomo nero, ammesso che quest’ultimo esistesse per davvero e che fosse la replica fedele di tutti i pensieri che da sempre elaborava su di lui. Elias non ce la faceva proprio a muoversi da vero prim’attore della sua vita e neppure da riconosciuta vedette di una singola situazione; gli mancava del tutto quel pizzico di irragionevolezza capricciosa che distingue un divo da una comparsa nonché l’antagonismo vendicativo verso tutto e tutti tipico dei veri padroni della scena. Questi limiti – dei quali tra l’altro era ben consapevole e che non smetteva di elencare a se stesso durante le lunghe ore di forzata immobilità che trascorreva in trasferta sulla panchina del giardino dei cigni – lo avevano penalizzato non poco anche nel suo duello a distanza con Wittgenhauer, il quale, sebbene senza picchi di vero splendore, poteva sempre contare sulla tetragona robustezza caratteriale del buon logico di medio livello, impermeabile alle ipocondrie che spesso affliggono invece le esistenze degli individui più geniali della categoria.
Nel corso di quelle interminabili soste solitarie cariche di pensieri scomposti e sempre accatastati l’uno sull’altro alla rinfusa, senza nemmeno azzardare un ordine logico a causa della consapevolezza a monte della loro assoluta inutilità, Elias, come imbattendosi in un chiodo sporgente dalla memoria, si ritrovava ogni volta ad agganciare – in fondo alla paralisi del suo disagio e in luogo di una spiegazione – il racconto dell’immagine di Milica, che se ne stava nuda di fronte agli occhi della sua rassegnazione, a camminare scalza sul solito parquet, cavando dal legno a ogni passo dei lievissimi sospiri, come se fossero tanti e minimi e subito zittiti orgasmi del silenzio smisurato di quella loro casa probabilmente troppo grande. Di Milica, anche se sotto forma di pensiero, Elias finiva per essere comunque succubo e proprio per questo seguitava a riconoscerle la libertà di trascurarlo, di fare e di vivere come se lui non esistesse. Come quando, per esempio, andava ad aprire la porta al postino, di corsa, alla prima e più acuta nota di campanello, saltellando completamente nuda, senza mettersi nulla addosso, a ogni costo spudorata e decisa a ignorare, per istinto o di proposito, l’offesa con la quale lo avrebbe ferito a dismisura.

(estratto dal secondo volume)

©Andrea Rossetti

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

error: All rights reserved (c) massimocasa.it