Dopo essere venuto a conoscenza della volontà di Milica di rimanere sempre e comunque insieme a lui, Elias aveva impostato l’elaborazione del lutto per quell’abbandono mancato – tanto imprevisto nei modi quanto poco sorprendente nei contenuti – alternando con maniacale monotonia ore di segregazione in casa e interminabili passeggiate solitarie a sempre più frequenti e rabbiose partite di tennis, che andava elemosinando giorno dopo giorno ai più forti giocatori del circolo, e quindi anche a Peter, l’astro nascente del tennis britannico, che tra quelli era riconosciuto come il migliore in assoluto.
A un certo punto però, proprio quando, dopo avergli rifilato in mezz’ora un categorico 6-0 6-1, tra l’altro concedendosi molte generose distrazioni, Peter stava riflettendo da un po’ sulla scusa migliore per sottrarsi alla solita, inevitabile richiesta di una rivincita, Elias, forse sprofondando all’improvviso in una di quelle crisi di confusa rassegnazione che spesso stronca gli equilibri interiori più precari e rabberciati, era invece sparito e per alcune settimane non si era più fatto vedere né circolo né altrove.
Una sera, dopo essersi congedato da Francis al termine del consueto allenamento, Peter stava tornando di corsa verso il Digamma Cottage per mantenersi accaldato e non rischiare raffreddori e guai muscolari (era infatti uno di quei giorni nei quali la furia del vento pareva voler ripulire fin troppo speditamente il mondo da tutte le sue sozzure), quando a un tratto, proprio nel punto in cui la luce di un lampione si adagiava verso terra disegnando un cono obliquo che sembrava fatto di smalto opalino, lo scorse rannicchiato dietro uno dei cespugli posti al bordo del marciapiede, scossi allora rabbiosamente dalle folate e dei quali vedeva nel buio soltanto i contorni tra gli spazi e le foglie simili a trine all’ago tessute per ornare un abito da lutto, mentre se ne stava assorto nel tentativo di dare da mangiare della mollica di pane a un merlo oltremodo diffidente.
Non appena si accorse della presenza di Peter gli andò incontro visibilmente alterato, avvicinandosi all’inizio fino a sfiorarlo e poi oltrepassando anche quella minima misura: i loro corpi si toccarono in modo scomodo e quasi doloroso, come se fossero uno le ossa di un uomo stanco e l’altro il duro pavimento di pietra che gli viene concesso per distendersi e riposare alla meno peggio.
“Lei! È il cielo che la manda da me stasera!” esclamò mentre il suo volto solcato improvvisamente dall’evocazione delicata di tutte le fragilità umane si era messo a beccheggiare tra l’oscurità e gli strali abbaglianti della luce artificiale come una scialuppa di salvataggio in piena bonaccia “Lei deve assolutamente aiutarmi! Mi dia ascolto per un po’, non chiedo altro. Al tennis ho rinunciato per sempre, non è di questo che ho bisogno di parlarle. Sono sconvolto, vivo in uno stato di inquietudine ininterrotta, pensi che non riesco a dormire per più di due ore consecutive e questo, le sarà facile comprenderlo, mi prostra con conseguenze che si aggravano giorno dopo giorno e che non so fino a quando sarò in grado di sopportare… Persino mia sorella, la mia cara sorella, che, come forse sa, è in attesa di un altro figlio dal suo secondo marito – Peter sollevò le spalle e fece cenno di no con la testa solo per lasciargli riprendere fiato – Beh, comunque anche lei, dicevo, è preoccupata perché nota in me una corrucciata noncuranza e questo mio stato delirante di totale sventatezza, che tra l’altro la priva del conforto delle mie attenzioni in un momento tanto delicato…”
Vedendolo sconvolto sul serio, Peter, benché con scarsissimo entusiasmo, invitò Elias al Digamma Cottage e lui, acceso all’improvviso da una sorta di fervorosa gratitudine per una disponibilità che probabilmente non si attendeva, pretese a tutti i costi di portare almeno la borsa con le sue racchette per sdebitarsi.
Peter lo fece accomodare nello studiolo del piano terra, quello rivestito coi pannelli di legno di cedro e per il quale sin dalla prima visita al Cottage aveva provato un’istintiva insofferenza, ritenendolo appunto fra tutti l’ambiente che meglio si accordava al fastidio per quell’incontro. Gli offrii poi del whisky di mediocre qualità in uno di quei bicchieri dozzinali che hanno il nome di una marca famosa stampigliata sopra e infine si sedette sulla poltroncina ricoperta da una tappezzeria un po’ sdrucita, con disegni in rilievo di foglie di vite e grappoli d’uva, che stava di fronte all’altra, identica ma leggermente più sbilenca, sulla quale con un gesto della mano invitò Elias ad accomodarsi.
“Cosa? Devo sedermi? Ah sì, capisco, è un po’ come il famoso lettino dello psichiatra…” disse lui sforzandosi per qualche istante di ridacchiare. Bevve quindi un sorso di whisky e, con lo sguardo ancora allucinato ma anche per certi versi diluito nel modesto fascio di luce giallognola e ranciata che si diffondeva dal lume acceso sulla vecchia scrivania, iniziò finalmente la sua confessione.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti