La prima in assoluto a venirmi incontro, affiorando da quella confortevole giovinezza che per un’intuizione del caso avevano scelto di mettere in comune e che decorava il mondo a me visibile come una filigrana – raso ricamato con sete policrome, argento e oro su uno sfondo complicato come la ruota di un pavone – si chiamava Annie.
Portava i capelli, di colore scuro, quasi nero, piuttosto corti, un poco arricciolati sulle tempie e sulla fronte e simili per questo ai tralci più giovani delle viti di traminer che alcuni anni dopo avrei visto coprire come un’onda perfetta le rigide e brune colline dell’Alsazia, mentre a volte il biancore nordico della sua carnagione s’inorgogliva leggermente – ma solo sopra il viso e in particolare intorno alle guance tratteggiate con la più genetica delle rotondità da un disegno quasi sottinteso, due gote che parevano fatte apposta per difendere e incoraggiare la grazia assoluta dei suoi grandi occhi, spalancati sul mondo circostante e vivaci del medesimo moto, spontaneo e innocente, dell’acqua marina di una caletta quando, pur rimanendo assolutamente cristallina, si fa già profondissima a pochi metri dalla riva, sino a renderli immuni da tutte quelle menomazioni con le quali nel corso del tempo il tremore pensoso dei dubbi e l’emotiva costanza nel moltiplicarsi di ogni svariata e casuale indecisione tendono fatalmente a intorpidire l’autenticità originaria di qualsiasi bellezza fisica, soprattutto poi se oltremodo perfetta – impennandosi fino ad assumere un tumido colore succoso, che ricordava quello delle pesche quando giungono alla piena maturazione, tutt’intorno al tepore azzurrino, solcato appena da qualche introverso riverbero madreperlaceo, degli sguardi coi quali lei, che si era accorta del mio occulto scrutare, fiera di mostrarmi sino a che punto potesse essere parco il suo interesse verso di me, si divertiva a replicare di tanto in tanto all’incerta ma insistente indiscrezione dei miei.
Del suo corpo mi aveva subito impressionato la struttura, all’apparenza molto esile, soprattutto per via delle braccia e delle gambe che, sebbene tutt’altro che sgradevoli, colpivano di primo acchito per la loro magrezza (era impossibile dubitare del fatto che una delle domande più frequenti che gli adulti, nella loro consumata e notoria docilità all’abbrivo conformistico dei luoghi comuni, le ponessero, fosse anche una tra le più classiche: “Sei sicura di mangiare abbastanza, Annie?”), ma che poi, se studiata bene e a lungo, potendo dedicare alla sua vista – come appunto facevo io – le dilatazioni generose di un tempo libero perché ricavato (e non sottratto) senza rimorsi di coscienza da quello dello studio a beneficio dell’estro secolare di una solitudine che proprio grazie a lei e alle sue amiche poteva ben dirsi beata più e meglio di quella degli antichi santi anacoreti, rivelava invece l’armonia graziosa e tutta la ricchezza primaverile di forme assolutamente accattivanti, che necessitavano solo di essere scoperte a poco a poco, nel loro sempre naturale parteciparsi rarefatto e quasi confidenziale, a partire dalla tonica maturità di un seno già delineato alla perfezione sotto i vestiti e poi dal moto avvolgente del principio costruttivo del suo corpo – che per questo somigliava molto alle bellissime forme assolute delle Maiastre di Constantin Brâncuși – intorno alla linea sicura della morbidezza di fianchi che andavano a chiudersi modellando due natiche sode e perfette, appena un po’ basse rispetto alle gambe, ma in modo tale che l’oggettiva imperfezione potesse godere appieno della massima noncuranza di un vezzo.
Nei suoi movimenti, nelle sue parole, nel modo di interagire con le altre amiche del cuore, mi trasmetteva il suo carattere più profondo; un’indole che covava sentimenti di ribellione – a tratti esagerati e pronti anche a farsi rabbiosi e irrazionali – rispetto a un destino già programmato per lei da qualcuno, da una presenza invisibile che non mi era ovviamente concesso di individuare, e che potevo solo percepire – comunque in modo nitido e irrefutabile – guardandola; un volto qualsiasi, estratto a caso tra i tanti più o meno uguali della gente perbene, quella che ha sempre le mani rispettabili e ben curate, all’occorrenza da salotto, da musica da camera oppure da saluto affettato.
La sua giovinezza quotidiana lasciava che la osservassi per poter essere intesa da me come una specie di ampia curva gentile, la quale era al tempo stesso – ai miei occhi e nei sogni dei miei occhi – il calco preciso di un ponte, di quella costruzione, cioè, che rende possibili transiti altrimenti complicati quando non addirittura impraticabili, come pure un rimando appassionato all’idea di arco, una delle strutture fondamentali mediante le quali l’architettura definisce l’abitabilità, poco importa poi se umana o divina, dello spazio, e infine un invito sentimentale al paesaggio, l’offerta ogivale messa a disposizione dello sguardo dall’eleganza discreta di una finestra patrizia.
Le sue gambe bianchissime e sottili, guizzanti sottopelle di brevi muscoli allenati dalla primavera alla corsa campestre – gara rinascimentale, rapida e festosa, da consumare in mezzo alla finta foschia sfavillante dei pollini e dei denti di leone – oppure dall’inverno, in questo caso sotto una pioggia sottile ma battente, a una solitaria arrampicata in bicicletta percorsa a perdifiato tra l’asfalto e il pelo, qui ancora acquoso ma là già opalescente, delle pozzanghere quasi ghiacciate. La sua vita era come lo stormire delle fronde ordinate, che in reticolo spartiscono di giorno la luce e l’orizzonte mentre di notte infittiscono e agitano il buio – annuvolato o stellato che sia – dei boschetti cedui, quelli cresciuti apposta per essere a tempo debito tagliati, che si distendono regolari vicino o a ridosso del greto di pigri canali d’irrigazione: ancora giovani e con nessuno schianto quegli alberi cadranno tutti insieme nel giorno prescelto e infine di loro non resterà che una lieve e ben presto dimenticata variazione dell’indole assai più vasta e trascendente del paesaggio.
Lei pareva dirmi: “Ti vorrei bene se solo mi vedessi per davvero come sono, se ti accorgessi appena della mia piccola danza segreta: è poca cosa e facile in fondo, un ritmo d’aria che i miei polmoni respirano a tempo e ostinati, affinché la vita fragile della brezza abbia comunque la meglio sulla morte pesante della bonaccia. Ti vorrei bene, forse ti amerei anche, se però ti accorgessi, se tu almeno potessi…”
A volte, mentre spiavo dall’alto quelle amiche del cuore, avevo la sensazione di essermi confinato da solo nel grave spazio affettivo di una malinconia sbadata e che quindi, a dispetto di sé, era anche vulnerabile agli slanci fulminei di una gioia senza precedenti, dalla purezza intensa, che mi trasmetteva la sensazione piuttosto astrusa di trovarmi in bilico tra un giardino pensile, potenzialmente bellissimo ma adorno di fatto solo di fiori secchi e di piante decrepite, e uno scarno cubicolo dall’aspetto quasi claustrale, pulito e luminoso, uno spazio completamente vuoto, liberato da tutte le interpretazioni vane dell’arredamento, inciso a strapiombo e per intero lungo uno dei due lati maggiori sull’ampia versatilità fantasiosa dell’orizzonte e lì anche foderato da cima a fondo di lievi e pregiati tendaggi, di volta in volta animati come polmoni di neonato ora dagli sbuffi indulgenti di una pioggia ventosa, ora dall’avventata esuberanza dei richiami più accaniti della luce solare. Sentivo con sconcerto e fastidio, quasi oltraggioso tra olfatto e pensiero, l’odore pungente di pigna prematura e di pinoli acerbi che si spandeva dal midollo spinale dei londinesi mentre macerava e imputridiva a cielo aperto, galleggiando quotidianamente nella melassa sentimentale in cui tutti insieme soffocavano ogni possibile insidia e criticità con la più gaia e socialmente accettabile tra le catatonie messe a loro disposizione dai luoghi comuni.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti