L’UOMO DISINCANTATO – Le amiche le cuore (6)

Tra le amiche del cuore c’era una ragazzina, Sara Jean, che manifestava i modi di fare più simili a quelli di Annie, la quale dal canto suo lasciava anche intendere subito di avere con lei una confidenza particolare ed esclusiva, messa bene in mostra, almeno per me che, grazie all’impegno quotidiano dedicato al privilegio giocoso di poterle spiare tutte insieme restandomene comunque per conto mio a galleggiare nel liquido amniotico di una sopraelevazione dolcemente invalicabile, andavo affinando senza alcuno sforzo la mia abilità di voyeur – della quale nondimeno ignoravo ancora il fondamentale disincanto – rendendola di giorno in giorno più scaltra e tuttavia mai meno innocente, me ne avvedevo dagli intrecci al tempo stesso schietti e furtivi dei sorrisi che ogni tanto si scambiavano e che, pur essendo rapidi come i guizzi delle lucertole quando vengono messe in allarme da un qualsiasi rumore, spiccavano chiaramente sulle altre trame, senz’altro più consuete, frutto della complicità tra le otto componenti del gruppo.
Sara Jean non era molto alta ma aveva una struttura fisica robusta, quasi da atleta (in seguito, continuando a spiare le otto amiche del cuore, avrei scoperto infatti che giocava bene a tennis), gambe tornite e muscolose, braccia forti ma femminili, un seno lasciato sempre libero di dondolare poiché appena accennato sotto i vestiti e due mani molto piccole dalla grazia ancora bambinesca. La sua era una bellezza inconsueta, per nulla inglese, direi anzi che sembrava più una creatura mediterranea, una κόρη greca, lontanissima però, se non nei tratti, dagli atteggiamenti troppo solenni della scultura antica e prossima invece alle sembianze più morbide, da belle époque, di certe autoctone e modeste cantanti d’opera dell’epoca di Giorgio I – il re danese degli Elleni – sempre circondate, tra le nuvolette di cipria che sollevavano nell’aria grazie al moto bizzoso dei loro ventagli, dall’ammirazione appassionata di banchieri, armatori, ministri e funzionari in ghette bianche e coi baffi a parafulmine, tutti a vario titolo corrotti e privi di scrupoli. Aveva bellissimi occhi trasparenti, azzurri come il cielo di lapislazzulo degli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni, e un collo lungo, da perfetta fanciulla cigno thailandese. Portava una grande matassa di capelli color biondo cenere raccolti sulla nuca in uno chignon mentre alcune ciocche le scivolavano senza malizia giù dalle tempie fino al centro delle guance. L’ovale del viso aveva una forma abbastanza spigolosa, il naso era sottile e piuttosto piatto, quasi privo di volume come il becco di una donna uccello, una di quelle che avevo visto nei quadri di Alberto Savinio, e anche il disegno della bocca era essenziale e scarno.
Nell’insieme il suo aspetto era quindi lontano dai canoni che il gusto allora in voga utilizzava per sancire la bellezza di una ragazza; eppure questa distanza, questo scostamento così profondo e definitivo, conferiva alla sua femminilità un sorprendente potenziale drammatico e maschile, rendendola non solo definitivamente bella ma anche – e senza dubbio alcuno – oggetto privilegiato di desideri raffinati.
Nata sul davanzale notturno di un’elegante casa borghese, linda e ben dipinta e perpendicolare al centro esatto del Carro dell’Orsa Minore, l’essenza nascosta di Sara Jean mi aveva infine folgorato in controluce, rendendosi per qualche tempo attraente sopra tutte le altre amiche del cuore, quasi che solo noi due potessimo coincidere insieme sull’istante del buio massimo e decisivo della notte di San Lorenzo.
Stella di carne ma pure carne di una stella più modesta, lei pareva gelosa della sua discendenza da un altro universo, ultima erede della materia della quale, prima di essere male o bene detti, si erano silenziosamente raggelati i pensieri degli uomini sul cielo e sui suoi potenziali abitanti. Coerente nonostante tutto, a dispetto dei graffi lasciati sui nervi scoperti della sua amata luna dalla distratta contemplazione dei gatti, soli abitatori degli spazi sbilenchi che, simulando un panorama, si allargavano di fronte alla finestra della sua stanza, tra i comignoli e gli abbaini, e che ogni notte le sembravano immancabilmente tutti uguali, neri come le più famose vacche di Hegel, Sara Jean sapeva che il cielo, disertato dalla modernità, intendeva e capiva benissimo il suo sguardo inclinato, infelice di gioia, e che la fedeltà feroce alla natura cosmica dei suoi pensieri sarebbe stata infine premiata; è tipico infatti delle creature celesti pensare alle cose terrene come a vaghe apparenze, come a sembianze che non perdurano e che, soprattutto, essendo sempre troppo pesanti, non volano.
Una di loro mi aveva colpito subito invece per la sua sorprendente capacità di utilizzare i movimenti del proprio corpo e perfino i giochi e le chiacchiere che animavano ininterrottamente le trame comuni del piccolo gruppo delle amiche del cuore per ritagliarsi una presenza particolare, in grado di mostrarsi sempre così defilata da lasciarmi intendere, nel corso del successivo e più ampio accumularsi di quelle vaghe sensazioni che il disincanto mi incoraggiava sempre ad alimentare intorno all’ipnotica esattezza di ogni idea definita, una prassi personale di adesione alla vita – simbolicamente avvalorata dalla sua statura, già notevole per una ragazzina di quell’età, e da un fisico perfetto e longilineo – in cui svagatezza e senso pratico si equilibravano fino a tratteggiare movimenti dalla flessibilità misteriosa, come se lei amasse considerarsi un riparo sgusciante da offrire alla propria ombra contro le tempeste più o meno segrete della sua vera vita mentre questa, imperterrita, la trascinava via con sé.
Si chiamava Malvina, lo stesso nome della dolce guida di Ossian, il falso bardo cieco di Macpherson, e, mentre la spiavo dal balcone con le sue amiche del cuore, lei era l’unica in grado di stare in mezzo alle altre senza essere mai fino in fondo assieme a loro. Aveva la schiva consistenza sottile di una ballerina, sempre e comunque sfuggente, quasi stesse eseguendo in assenza di musica la successione dei passi di una coreografia disegnata per essere soltanto un movimento mentale, e a prima vista pareva addirittura antipatica, immersa com’era in un clima scontroso di caritatevole superbia, facilitata in questo dalla sua costituzione filiforme e dalla stessa bellezza del suo profilo rarefatto, come quello di un quarto di luna assorbito dal seno, fattosi a poco a poco troppo voluminoso, del cielo mattutino.
Mi piaceva pensare che fosse nata in una terra fertile, confinante con grandi campi di luppolo o di segale, verso sera, all’ora cioè in cui le braci virili dei sigari, disperse in sparpagliate processioni nel seno del limbo di luce che ogni giorno ondeggia invariabilmente tra il crepuscolo e l’oscurità, parevano altrettanti vasi di turiboli bollenti d’incenso benedetto; e mentre frullavano come ali di passere le gonne delle mietitrici danzanti – femmine dagli occhi resi dolcissimi dal profumo fragrante del pane appena sfornato e con le labbra agghindate solo dal desiderio gioioso di un boccale di birra – unite in coro intorno ai falò accesi nei cortili delle fattorie dalle esecuzioni festose e maldestre di violinisti dilettanti ma soprattutto animate in segreto dalla semplice volontà di abbandonare subito, già al loro primo schiudersi e quindi senza concedere ad alcuna e in nessun caso il tempo di incancrenirsi in una vera e propria piaga, le feritoie morali segretamente aperte dai tanti amorazzi rubati dall’infedeltà coniugale alla disillusione e prima ancora da questa all’innocenza presunta e ufficiale dei fidanzamenti (perché il pensiero del commiato e in generale quello della fine non possono più dispiacere quando tutta la vita si condensa infine in una sola, diletta stagione: la lunga primavera del compromesso in cui l’aria, tanto fresca e graziosa, sa bene come illudere dolcemente il sempre incerto respiro umano).
Immaginavo la felicità definitiva e straziante che avrei provato se un giorno avessi sposato Malvina durante un matrimonio campestre, allegro e ovunque adorno di moltissimi fiori; una cerimonia per nulla sofisticata, anzi sin da principio attenta più che altro a stabilire il perimetro certo della propria, naturale sobrietà così da potersi svolgere poi per tutto il tempo necessario in un clima di libera ma equilibrata spensieratezza; sognavo di vederla apparire e quindi discendere albeggiante verso di me dalla cima di una collina, là dove gli spaventapasseri proteggevano ordinatamente le belle promesse dei campi di grano, colmi di spighe e fibrillanti al vento, lungo la strada più bianca possibile tra le molte, candide vie della campagna.
Non di rado però sul più bello, proprio quando certi sogni erano sul punto di squadernarsi completamente per coronare di vero diletto la mia gioia, già di per sé inebriante, mi toccava lasciarli in sospeso e rientrare in fretta dentro casa, così come d’altra parte facevano sgattaiolando via di corsa e ridacchiando felici anche le amiche del cuore, perché l’uggiosa pioggerellina londinese non ci dava mai tregua troppo a lungo.
Così, al riparo dei retroscena più o meno feroci degli acquazzoni ricorrenti, finivo sempre per specchiare quasi stordito la solitudine del mio volto sui vetri di una finestra velocemente richiusa, mentre gli scrosci celestiali dell’acqua incidevano in me, al ritmo degli steli battenti di quei brevi diluvi, un periplo di pensieri ossuti e di perdute velature, ombre interiori che inzuppavano di nulla tutto il tempo che mio malgrado mi toccava ammazzare.
A quei tempi le giornate subentravano senza soluzione di continuità le une alle altre, tuttavia sempre felicemente vincolate, sia intorno a me che tra le mie emozioni più riposte, lungo il flusso molle di un tempo parallelo, che nella sua beata leggerezza scorreva alternativo – non senza alle volte inorgoglirsi cedendo a una comunque discreta sfacciataggine – rispetto a quello di converso del tutto ottuso e monotono che frastornava e flagellava la mia quotidianità, sommersa, a causa della condivisione forzata del mondo degli altri, dal ticchettio invadente di sveglie, pendole e orologi, e che, intimamente diverso dall’originale, si opponeva di conseguenza e con un’intima e irriducibile contentezza agli schemi triti delle solite unità di misura, sempre profumato dagli incantesimi di una dolciastra anestesia morale mentre, appagante grazie ai progressivi trionfi della distrazione, accordava tutta l’appetibilità necessaria alle segrete manovre di un sentimento insolito del vero nel quale il disincanto, concedendomi ancora integra l’impressione infantile di una prospettiva felice, sopraelevava ogni mia nuova voglia.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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