Il mutuo e vivace affiatamento, che aggregava quelle belle ragazzine sino a fonderle nella compattezza insinuante e mondana di un minuzioso altorilievo e che mi restituiva, sul filo radente di una sottile analogia, l’ideale di un fiocco di seta annodato, con la molle grazia sbarazzina propria di chi ha ormai da tempo una confidenza virtuosa e assoluta col suo mestiere di fioraio, intorno a un fragrante bouquet messo insieme a partire da un semplice ciuffo di otto bellissime e giovani rose, ciascuna tanto diversa dall’altra quanto poi di fatto sua consanguinea, quasi esse non potessero essere infine che un unico organismo completamente solidale, del tutto esplicito e ben delineato, era rimasto per un bel po’ con generosa prepotenza di fronte alla neutralità accondiscendente del mio trasporto, così da impregnarsi, aggirando ogni cautela e liquidando presto qualsiasi parsimonia, dei numerosi incoraggiamenti messi a disposizione dal mio sguardo, assorbendolo quindi completamente, col medesimo tenore ipnotico e universale che può vantare la più amabile delle distrazioni, fin dal momento in cui, chiuso nell’intimità ombrosa ma anche floreale di un’anomala gioia e mettendo a frutto l’abbondanza di tempo libero che mi lasciava la rapidità – a tratti spocchiosa di compiacimento nonostante l’immeritevole naturalezza che comunque riusciva a conservare inalterata – con cui venivo a capo perfino degli esercizi più difficili di matematica e di geometria, avevo cominciato a impiegarlo nello studio delle singole apparenze di quelle otto chiassose amiche del cuore e nell’osservazione pomeridiana della loro ben più che complice solidarietà. Così, mentre, protetto dallo scudo panciuto e profondo della terrazza che, per la sua particolare posizione, avevo eletto a mio punto di vista, mi andavo assuefacendo a poco a poco allo spettacolo pomeridiano della loro presenza complessiva (in me e al di sotto di me), grazie all’ascolto ininterrotto delle loro parole che, come un ideale cruciverba, mi rimandavano alle verità dei loro pensieri e dei loro segreti, avevo presto imparato anche a distinguerle una per una, decomponendo la solida struttura di quel gruppo in altrettanti nomi e amori platonici a mia disposizione.
All’inizio mi piaceva guardarle ancora per un po’ tutte insieme, lasciandole libere di riproporre all’innocente prepotenza dei miei sguardi lo schema elementare della loro partitura originaria; almeno finché, dopo aver eseguito per filo e per segno e in costante crescendo tutte le svenevolezze dello stordimento che mi venivano imposte a tamburo battente dai passi – peraltro sempre turbinosi di incruenta tachicardia – della danza endorfinica in cui quel primo ma già denso albeggiare del disincanto inabissava di regola ogni mia emozione come fosse l’incrocio puntuale di una via traversa, non senza accompagnarla vaporosamente col retrogusto zuccheroso di una promessa fatta in parti uguali di molto tempo e di buona sorte, mi veniva anche la voglia di soppesarle una per una (e, plagiato com’ero già dalle mie tendenze cartesiane, ogni volta anche nel medesimo ordine chiaro e distinto) quasi che, perfino prese singolarmente, esse non potessero essere comunque che altrettante variazioni su un unico tema principale; e lo facevo fidandomi di una vaga curiosità molto semplice, messa a fuoco soltanto grazie alla genuina limpidezza di un impianto sentimentale dal mio punto di vista ancora in tutto e per tutto confortevole e bambinesco, che in fin dei conti conteneva bene la pressione indiscreta esercitata da un nugolo di fantasie segretamente rampicanti intorno a smanie e golosità già ben radicate nel tempo ancora incerto e inaugurale della mia adolescenza, in bilico tra un passato carezzevole e un futuro intrigante ma ruvido; lo facevo, infine, chiedendomi stordito tra me e me che sole fosse mai sorto e a quale giorno appartenesse per davvero quella leggenda che quotidianamente prosperava svolgendosi in forma tanto reale dinanzi ai miei occhi.
Il tempo di quelle ragazze aveva il colore del rubino e profumava dell’ombra che macchia lo spazio sotto i pergolati di glicine. Lo vedevo corroso attraverso un’incomprensibile sofferenza, come se non potesse essere nel contempo che amore e lacrima, piccola impronta di luce e scia di prossimi congedi già consumati.
Ah, quant’è inutile l’amore, che la superbia di qualunque vessillo mondano può a suo piacimento carezzare di morte – di una morte a volte persino gentile – così come la fuga guizzante di una lucertola dagli occhi acquosi e tristi scorre via tra le scaglie di una pietraia soleggiata. Quant’è davvero indifeso l’amore umano: inerme a tal punto che persino il volo farfugliante e grigiastro degli stupidi piccioni che intasano il cielo di Londra può negargli l’immagine del fuoco di un’ellisse divina.
Non mi stancavo di spiarle, lieto e divertito dalla possibilità di non essere scorto così come invece da quella di apparire alla loro vista dietro il parapetto del mio balcone solo per qualche istante oppure a volte anche un po’ più a lungo, con schiva e finta sfacciataggine, idealizzandomi così nella maschera fascinosa di una presenza sovrana e spirituale, una specie di spiritello sagomato sull’esempio di quelli di Guido Cavalcanti, giocoso e innamorato di tutte e di nessuna di loro ma pronto, in linea squisita di principio, a lasciarsi incantare da una possibile eletta alla quale consacrare tutti i sospiri di un sentimento ideale; uno spirito che desiderava aleggiare sopra le loro teste, i loro giochi, la loro serrata complicità e gli intrecci preziosi delle loro voci, reticolati eleganti entro cui si alternavano cinguettii di uccelli fantastici posati su rami di girali d’acanto e cori floreali tra i quali la mia fantasia, ben confinata nella propria natura libresca e introversa, amava prima infiltrarsi e poi sostare per tutto il tempo necessario a credere di riconoscere distintamente i singoli timbri verginali dei gelsomini, degli iris, delle primule e dei tulipani.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti