L’UOMO DISINCANTATO – L’astrazione del dolore (2)

Un giorno Francis decise, come sempre senza un chiaro motivo, di lasciare l’Unione Sovietica per ritornare a casa e, appena atterrato a Londra, telefonò subito a Peter chiedendo – con un tono di voce supplichevole – di potergli parlare al più presto. All’inizio Peter, avendo ottime ragioni di sospettare che ad attenderlo, dopo il rituale e in ogni caso depressivo resoconto del viaggio, ci fossero in realtà le solite chiacchiere confidenziali dell’amico, fitte come sempre di confessioni imbrigliate intorno ai suoi melodrammatici punti di vista sentimentali sulla vita e sul mondo, cercò di tergiversare ma quando infine, cedendo a un moto antico ma in fondo ancora verosimile di affetto, accettò d’incontrarlo, fece fatica a riconoscerlo: la personalità di Francis, sebbene da sempre influenzabile e capricciosa, aveva infatti rubato allo spirito russo qualcosa di tragico – forse l’eroismo severo e quasi mitico della rassegnazione ma anche la timida aridità dell’innocenza – e nel contempo si era a tal punto identificata nella scoperta di quell’anima antica da percorrere sino in fondo, come se fosse la corda di un funambolo sospesa sul vuoto, quella specie di limbo che sta tra la possessione diabolica e il delirio schizofrenico e nel quale consiste in fondo l’immedesimazione di un attore nel suo personaggio. Dibattendosi lungo le strade di Kiev tra la ricerca di un prodigioso turbamento in grado almeno di guarirlo e quella del miracolo che avrebbe potuto invece liberarlo del tutto da se stesso, egli aveva finito per trovare una via di mezzo, una sopravvivenza teatrale e in un certo senso sovversiva, nella quale cioè l’attore e il personaggio coincidevano perfettamente non in virtù dell’arte drammatica ma per il compiersi di un vero e proprio destino. Francis era tornato dall’Ucraina chiuso nel bozzolo di una torbida accidia: viveva, respirava, si era persino rivestito con un impalpabile fascino sulfureo, eppure dentro di sé era già completamente spento e somigliava a una bella conchiglia ormai vuota o a una figura di cera inanimata che, senza partecipare alla propria vita, si limitava a non opporsi al suo accadere. Era diventato un piccolo uomo disilluso, e quasi si pavoneggiava agli occhi di Peter per questa sua conquista che, dal di fuori, là dove si trovava ostracizzato, gli lasciava credere di essere una buona volta e in qualche modo simile a lui: ubriaco ormai di eccentricità scomposte sino allo sconforto e avvelenato da un’allegria carnascialesca, simile a quella terminale che puntualmente esplode ogni anno di martedì grasso, non avrebbe di sicuro mai immaginato quale tristissima stroncatura lo sgangherato istrionismo della sua condizione ispirasse invece all’autentico disincanto del suo amico, giacché quest’ultimo, sempre in considerazione della solidarietà che li aveva uniti per anni, si limitava a guardarlo senza più avventurarsi nella ricerca di una qualsiasi bandolo della matassa e provando solo e in santa pace una grande pena per lui.
Comunque sia, sedotto e quasi rivitalizzato dal suo nuovo punto di vista come dalla possibilità di un doppio gioco apparentemente dedito alla finzione ma di fatto già d’accordo coi piani occulti della verità, Francis, deragliando con adeguata lentezza dal tempo personale dei rancori e delle recriminazioni, iniziò a parlare a Peter, così come avrebbe fatto con chiunque altro gli fosse capitato a tiro, della morte in termini di diserzione: “Sarà pure una fuga meschina,” sussurrava dando però alla sua voce un corpo, una specie di posa melodrammatica che non aveva mai conosciuto prima e nella quale anche chi, come Peter, lo frequentava da decenni, stentava a riconoscerlo, “ma se uno, prendi me per esempio, ha oramai paura di respirare, quasi si trattasse ogni volta per lui di partire per la guerra, e d’altra parte non è nemmeno più così giovane da trovare la voglia di farlo grazie a una passione bell’e pronta e compiacente come l’eroismo, perché nell’uomo niente è soltanto meccanico ed esentato dai sentimenti, caro mio, nemmeno la biologia; se il cielo gli pare solo un enorme telone colorato come quello che protegge l’allegra spensieratezza di uno spettacolo circense, che può così sopravvivere sebbene sia sempre trafitta dalla penosa malinconia della sua vera natura (fu proprio ascoltandolo fare affermazioni come questa che Peter riuscì a comprendere meglio di quale specie fosse la sua metamorfosi, giacché in altri tempi meno istrionici di quelli, quando la sua inerme delicatezza era ancora un tratto distintivo a tutto tondo, simile a uno specchio appena pulito, Francis, nel dire una cosa simile, non avrebbe mai tralasciato di citare almeno Leoncavallo e Federico Fellini, appoggiandosi nel contempo a un caratteristico sorriso acerbo in cui tutta la sua adolescenza si rifaceva viva); se la solitudine diventa una condizione assoluta, indipendente dalla gravità del silenzio e dal succedersi definitivo di una moltitudine di assenze, fatta semplicemente per azzannare e dilaniare la sua gola, come una rediviva bestia di Gévaudan? Beh, caro mio, allora diventa chiarissimo che la vita, qualsiasi vita, se ne deve comunque andare via rapida come un aborto…”
Solo qualche giorno dopo, mentre passeggiavano taciturni sulle rive del Tamigi, tutt’a un tratto Peter lo vide fermarsi – sorridente e ispirato dalla stessa voglia irrequieta di giocare che un tempo avevano condiviso – solo per lanciare dei sassi e guardarli rimbalzare sull’acqua prima di sparire, inghiottiti da un breve viaggio danzante verso i fondali. “Li vedi?” gli disse. “Con che grazia da tuffatrici se ne vanno giù! Magari potessi essere uno di loro… Purtroppo sono troppo bravo a nuotare, non mi riuscirebbe mai di inabissarmi a sufficienza…” E intanto che la lingua schioccava  sull’ultima parola come la punta di una frusta, lui aveva già scagliato verso il cielo una delle sue nuove risate raggelanti – da ucraino o da russo – che fendevano in due anche l’aria più greve, subito mitigate, però, dal candido venire alla luce dei suoi denti, teneri, affettuosi, da bambino.

(estratto dal secondo volume)

©Andrea Rossetti

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