L’UOMO DISINCANTATO – L’astrazione del dolore (3)

Cominciò pian piano a trascurarsi proprio mentre la sua salute peggiorava visibilmente, affliggendolo con un tremore ininterrotto e diffuso in tutto il corpo e poi anche con attacchi improvvisi di tachicardia. Soprattutto questi ultimi lo spaventavano e lo estenuavano; e in effetti anche dall’esterno si poteva vedere chiaramente il suo petto vibrare come la pelle di un tamburo percossa dalle mani inesorabili di uno sciamano durante un rito funebre.
Sebbene col trascorrere del tempo la cosa capitasse sempre più di rado, fargli visita era diventato per Peter un vero strazio: lo spirito russo, che per un certo periodo l’aveva in qualche modo protetto, rivitalizzandolo sino a renderlo molto simile alla sagoma recitante di un antico teatro delle ombre, era stato infine guastato dal fatale ritorno a una scenografia quotidiana sulla quale aleggiava fin troppo pesantemente – come ruggine o muffa – il monotono pragmatismo inglese. Quella specie d’intossicazione aveva finito per operare in lui una metamorfosi spaventosa, l’ultima della sua vita e senza dubbio la peggiore, trasfigurando l’elegante corvo nero che era tornato da Kiev in un ossuto ratto londinese, due animali parimenti ben disposti a banchettare coi rifiuti degli uomini, che il primo però domina sempre dall’alto, mentre sorvola le discariche, planandovi poi sopra ad ali spiegate senza perdere né la sua cupa maestà né l’alterigia arcigna che gli scintilla comunque nello sguardo, e che il secondo invece lambisce e attraversa svicolando via precipitoso tra i rifiuti, mentre l’immondizia che lo circonda diventa un paesaggio, uno scenario malfamato che comincia sottoterra, tra cunicoli grondanti di acida umidità e corsi d’acque reflue, e che poi si dispiega salendo fino ai marciapiedi, dove l’aria tossica cambia improvvisamente di sapore, sfarinandosi a cielo aperto tra gas di scarico e vapori fetidi per contornare meglio gli sbuffi invisibili di fuliggine adrenalinica evocati dalla persistente minaccia di agguati da parte degli uomini e dei gatti randagi che rende ogni sortita, anche la più timida, tanto snervante quanto irresistibilmente avventurosa.
Francis si era ingobbito e, infagottato nei suoi vecchi abiti che, divenuti troppo larghi per lui, gli cadevano da tutte le parti, si muoveva trascinandosi addosso un povero corpo segaligno nel quale la sua ormai cronica aritmia cardiaca insisteva a pompare alla meglio cinque litri di sangue guasto; un corpo che davvero non conservava più nulla di quello agile e reattivo del tennista di una volta. Anche il suo sguardo si era rimpicciolito dietro le spesse lenti rotonde degli occhiali dalla montatura dorata e sottile; e quando rispondeva al telefono – quel lugubre apparecchio che si ostinava a volere di colore nero per una specie di scaramanzia rovesciata – portava a sé la cornetta senza nascondere ogni volta un sussulto di trepidazione, quasi stesse abbracciando l’ultima speranza di convalescenza in grado di rovesciare le sorti di una vita da sempre refrattaria ai miracoli e tanto simile alla Londra di quei giorni che, tutta gonfia di umidità, sembrava una bolla d’aria prigioniera del concetto ideale di metropoli.
Dal canto suo, Peter cercava di sconfessare, per la verità più ai suoi che agli occhi di Francis, l’ormai assoluto disinteresse che provava verso di lui, sforzandosi di testimoniargli di continuo un affetto di pura facciata ricorrendo anche a dei piccoli regali, spesso inutili e sempre convenzionali, il cui numero esagerato nei suoi propositi avrebbe dovuto distogliere l’attenzione di entrambi dalla conclamata insincerità che li ispirava (in quanto la freddezza dei sentimenti e il vago senso di colpa che ne consegue riescono a negarsi e ad assolversi proprio nel largheggiare disattento delle elemosine che dispensano). Non passava giorno o quasi senza che Peter facesse recapitare all’amico – forse anche per prevenire inconsciamente richieste o iniziative da parte sua – una costosa scatola di cioccolatini belgi, gli stessi che peraltro lui detestava fin da bambino, quando i signori Dufond li portavano in regalo a suo padre, oppure di marron glacé, ma anche semplici sacchetti di confetti, di caramelle o di bastoncini di zucchero, e poi ancora marmellate, miscele di tè, biscotti, pennelli da barba, rasoi, penne, tagliaunghie e una volta addirittura uno di quei ridicoli calendari con la faccia del destinatario stampata sopra. Della loro amicizia non restavano alla fine che due rami secchi: il bisogno tormentato di Francis di ingannarsi ancora un po’, godendo, grazie a quelle stantie abitudini amicali, di una vita quanto meno ancora buona da sfiorare, e l’ipocrita e moderata disponibilità di Peter ad accontentarlo.
Andarono perfino insieme in Costa Azzurra, perché Francis non l’aveva mai vista e non era stato capace di resistere all’idea di lasciarsi sedurre da quella stravagante nostalgia che si prova a una certa età verso tutto ciò di cui nel corso degli anni, per pigrizia o per necessità, si è soltanto sentito parlare. Ogni giorno scendevano in spiaggia e nuotavano, ciascuno per conto suo, fino a perdersi di vista anche per ore; oppure rimanevano vicini, sulla battigia, a fissare in silenzio l’ultimo lembo tiepido di mare che, schiumando, accerchiava i piedi di entrambi coi suoi bagliori cristallini, in un inarrestabile avvicendamento  fra toni di verde, di grigio, di ruggine e di blu che induceva il vuoto generoso dei loro sogni a fantasticare, quasi ipnotizzato, del trucco di scena di sirene cantatrici; e poi, al calar della sera, concordi nel ripudiare l’ordinaria ovvietà del fatto che vi fosse per davvero al mondo un’ora appropriata e valida per tutti da dedicare alla stessa cosa – nella fattispecie alla cena – se ne restavano immobili, a guardare la chiusura degli ombrelloni – che a entrambi pareva governata da un effetto domino appena un po’ sfasato dalla differente corporatura degli addetti – prima di abbandonarsi a un’intima quiete posta a galleggiare tra il sonno e la veglia su uno dei tanti tramonti color lavanda che dilatano e fanno vibrare il filo dell’orizzonte come una grande grotta miracolosa. “Andiamo a divertirci da qualche parte, non m’importa dove, basta che ci andiamo…” aveva detto Francis a Peter sul limitare dell’ultima sera. “Per la vita il sonno è solo un complice inaffidabile e bugiardo, sognare è come tradire.”

(estratto dal secondo volume)

©Andrea Rossetti

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