Col trascorrere degli anni le occasioni d’incontro tra Peter e Francis, durante la lunga morte della loro amicizia (non potendosi infatti definire come agonia una circostanza che sapeva già completamente di lutto senza riuscire però a coagularsi nella chiara brevità di una veglia funebre, giacché non li metteva mai di fronte a un fatto ormai compiuto bensì alla sua anomala ed estenuante conclusione in forma di durata), divennero sempre più sporadiche, conseguenze necessarie della tenace buona educazione del primo nel sentirsi in imbarazzo di fronte al desiderio di liquidare quel rapporto una volta per tutte e dell’astiosa perseveranza del secondo nel voler liberare se stesso dall’intreccio crudele dei rancori e delle disillusioni tentando invano di evocare nel suo amico perlomeno un barlume di senso di colpa.
Francis era davvero molto cambiato, fino a diventare l’ombra contorta del sodale che Peter aveva conosciuto e frequentato per tanti anni. Pareva percorso incessantemente da una strana tensione che, prima di riuscire a sciogliersi in un sorriso smarrito e di circostanza, provocava un tremolio alle sue lunghe mani da violoncellista, due magrissimi involucri sottili di pelle livida chiusi intorno a vene, tendini e ossa, sempre meno ubbidienti ai suoi desideri e governati invece da oscuri automatismi involontari, la cui meccanica profonda brancolava nella nebbia di una sensibilità ormai corrosa dalla depressione. Introverso fin da bambino, a seguito dei fatti di Wimbledon era diventato anche scontroso; inorridiva per esempio se una porta tardava ad aprirsi, se il saluto di un parente, di un amico e persino di un semplice conoscente gli pareva sciatto o anche solo formale, oppure se un telefono qualsiasi squillava a vuoto troppo a lungo, infliggendogli la vanità angosciosa dei suoi trilli che si convertivano sulla sua schiena in altrettante trafitture mirate tra vertebra e vertebra, fin dentro il midollo spinale, aventi il solo scopo apparente di paralizzarlo. Viveva ogni nuovo giorno con crescente incertezza, quasi che la vita fosse una condizione morbosa, una specie di malsano acquitrino, e lo stimolasse appena in superficie, così come il freddo intenso, la paura, la nostalgia, il desiderio sessuale, la gioia o lo stupore provocano a volte quella reazione spontanea che viene comunemente chiamata pelle d’oca; e, per confortarsi, accentuava oltre misura una frivolezza artefatta in cui forse, soggiogato oramai dalla marea montante delle recriminazioni attorno al suo intimo e irrimediabile naufragio, esibiva, sfigurandola, la sua omosessualità , nella quale fino ad allora si era invece identificato alla perfezione col suo viso tranquillo da benestante tennista gentile che, con sobria limpidezza, ritraeva la bella curiosità famelica di una schietta intelligenza. Appassionato fin da ragazzino di fisica e di letteratura, Francis era sempre stato uno di quelli che non si incontrano quasi mai senza un libro sotto il braccio e che vivono i libri stessi come una seconda pelle, tormentandone ogni pagina – che scorticano di sottolineature e di annotazioni sui margini bianchi fino a spezzare le punte delle matite – con le dita appena umide di sudore a causa di un’emotività tutta loro, schiva e infantile.
Quando andava a trovare Peter o gli chiedeva di poterlo incontrare da qualche parte (perché a prendere l’iniziativa era sempre lui mentre l’altro si limitava ad acconsentire malvolentieri, salvo promettergli di farsi vivo presto a sua volta al solo scopo di levarselo di torno, ben consapevole del fatto che non avrebbe mai rispettato quell’impegno), si presentava immancabilmente circondato da un alone inesorabile di stanchezza e come murato dietro un livido imbrunire dal quale la sua vita lanciava all’esterno dei vaghi segnali, che non somigliavano affatto a delle richieste di soccorso ma ricordavano casomai le luci stroboscopiche intermittenti che segnalano gli aerei in volo silenzioso nella notte.
In seguito Peter venne a a conoscenza del fatto che per curare la sua depressione Francis si era rivolto a un oscuro neurologo gallese, dal quale poteva recarsi periodicamente di nascosto, perché una delle sue ossessioni era diventata appunto la segretezza, tormentato com’era dall’idea maniacale che qualcuno potesse accorgersi del suo vero stato e che la voce finisse per girare tra le sue conoscenze.
Per un certo periodo, proprio allo scopo di evitare ogni tipo di rapporto con le persone della sua cerchia alle quali, tra l’altro, aveva cominciato a rivolgersi sempre più spesso con un’agitazione scorbutica e in certi casi perfino insolente, si era trasferito a Kiev (più tardi, grazie a un complicato giro di confidenze, Peter venne a sapere che aveva preferito quella destinazione a Mosca per sottrarsi agli obblighi familiari e sociali che la presenza nella capitale sovietica di un suo zio materno, alto funzionario della missione diplomatica britannica nonché braccio destro e intimo amico dell’ambasciatore Sir Curtis Keeble, e della giovanissima moglie di lui, gli avrebbe imposto quasi quotidianamente), dopo aver raccontato per mesi a chiunque lo incontrasse la giustificazione stravagante del desiderio di voler apprendere a tutti i costi la ‘bellissima’ lingua ucraina – senza che alcun motivo plausibile lo spingesse a farlo così all’improvviso – ed essersi sottoposto cocciutamente all’infinita serie di difficoltà burocratiche imposte a qualsiasi occidentale, tanto più se inglese, che volesse soggiornare in Unione Sovietica.
Naturalmente Peter sapeva benissimo che Francis, essendo ormai ostaggio di una scontentezza viscerale, anche ammettendo che avesse trovato per miracolo la voglia di provare sul serio a studiare l’ucraino, non solo non l’avrebbe mai imparato ma si sarebbe anche perso nell’assillante e infinita ricerca delle cadenze giuste e della pronuncia perfetta, cioè dietro l’ennesimo, disarmante miraggio di un’impeccabilità assoluta (come durante i loro allenamenti tennistici, quando con convulsa ostinazione pretendeva da lui che giocasse a oltranza sulla sua destra per consentirgli di perfezionare il diritto, il colpo che, a causa di una fragilità congenita dei tendini del polso, lo faceva soffrire minimamente a ogni impatto, sottraendo efficacia alla spinta della racchetta e interferendo sulla velocità della pallina, la quale finiva per rimbalzare dall’altra parte prima inclinandosi come un aereo al principio di un’avaria e poi quasi sostando a mezz’aria, lungo l’arco di tempo di un breve tremolio, sufficiente comunque all’avversario per preparare il suo colpo di risposta nel migliore dei modi, e glielo chiedeva sempre con la pudica discrezione di una pena semplice e borghese, increspando e subito spegnendo il tono della voce grazie a una rabbia supplichevole che coagulava in un unico grumo sonoro, fatto di parole al tempo stesso stridule e fragili, il nervosismo stizzito per la propria inadeguatezza di atleta e l’aspettativa quasi devota nei confronti del suo aiuto: “ho bisogno di trovare il gesto adatto, il mio gesto…”, ripeteva, “e tu non perdere la pazienza, non stancarti di me, perché altrimenti mi si spacca il cuore…”); e che alla fine, ogni notte, non riuscendo a dormire a causa della stessa e inesorabile ambascia sentimentale che lo tormentava a Londra, sarebbe infine sceso in strada a camminare per ore, sprofondato nel suo cappotto elegante e per niente russo, con la lobbia grigia calzata malamente sulla fronte come un basco, l’abito gessato troppo largo e la solita barba incerta che fin dalla pubertà gli brulicava sempre identica sulla faccia, aggirandosi come uno sconsolato fantasma di Canterville per le vie periferiche e tristi di Troeshina, disegnate da giardini pubblici aridi come ritagli di steppa e correnti lungo infiniti caseggiati di edilizia popolare sovietica, interamente grigi oppure macchiati alla rinfusa da colori nati stanchi, con l’intento di coglierne a tutti i costi il fiato segreto e persino la furfanteria, ma più di ogni altra cosa, e inevitabilmente solo grazie alla dolcezza di un puro caso, qualcuna delle parole più lievi e generose, custodite chissà dove nelle anonime profondità di quegli alveari proletari per decorare con la loro semplice verità i gesti intimi e il poco tempo a disposizione di ogni specie possibile d’amore. A quel punto, sentendo gli occhi bruciare per un’inspiegabile commozione e il peso della solitudine addossarsi come cosa assiderata sul suo petto, Francis, dopo aver allontanato come un pensiero peccaminoso la consapevolezza di essere sul punto di compiere l’ennesimo depistaggio ai danni della propria emotività esausta, avrebbe istintivamente cercato scampo nel solito incontro mercenario, per trovare un po’ di pace sulla pelle diafana e liscia di un giovane ucraino, sedotto non senza un sussulto di deludente facilità dal fruscio di una banconota da dieci sterline (irresistibile evocatrice, laggiù, di un altro mondo, libero e opulento, sconosciuto e negato), al quale, durante l’orgasmo, cioè poco prima che lui si rivestisse in fretta per poi sgusciare via silenzioso verso il resto della sua vita, assolutamente indifferente a ciò che aveva appena fatto spinto dalla sola, buona ragione che gli era successo, avrebbe ripetuto, sicuro, per una volta almeno, di non essere compreso per un motivo plausibile, ovvero l’uso intenzionale della lingua inglese, una frase criptica che di solito pronunciava svelto, in un gemito solo, e dalla quale non si separava mai come da un amuleto: “Presto, facciamo presto, ma lasciamoci prima intenerire!”
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti