L’UOMO DISINCANTATO – La mia amata, la mia detestata, Melissa McNult (3)

A questo proposito è necessario fare una precisazione: a quei tempi nel circondario girava con insistenza la voce – senza dubbio amplificata dal generico sospetto con cui un ambiente inglese e protestante non poteva non guardare alla famiglia irlandese e cattolica di un attivista dell’IRA – che Melissa McNult, quando viveva ancora a Derry, avesse assecondato con una certa disinvoltura le galanti attenzioni di un alto ufficiale dell’esercito inglese, fino a diventarne per qualche tempo addirittura l’amante, in cambio della sua autorevole intercessione presso il funzionario al quale il ministero aveva affidato l’incarico di redigere il rapporto confidenziale sulle attività sovversive del marito; fatto sta che, vera o meno che fosse questa diceria, alla fine il signor Anthony, il padre di Sean, aveva effettivamente goduto di un trattamento piuttosto benevolo, evitando sia l’arresto che il temutissimo carcere preventivo, e si era quindi potuto trasferire a Londra senza troppi problemi.
Ebbene di questa storia – così semplice da disprezzare se, in quanto inglese, l’avessi voluta guardare dall’alto verso il basso, e giunta sino a me per forza d’inerzia, mediante il più esemplare di quei chiacchiericci di quartiere fatti apposta per convertire il flusso delle parole in montante mormorazione grazie alla capacità che hanno i sussurri e i sottintesi di propagarsi per dispersione anziché per accumulo, come accade invece ai discorsi onesti e agli argomenti fondati, e simili in tutto a una grande colonia di parameci, che anche il migliore tra gli occhi umani, nella sua inadeguata nudità, non riuscirebbe mai neppure a indovinare mentre, rapidissimi e flessuosi sulle loro ciglia, eseguono mutevoli traiettorie a spirale ruotando spigliati sul proprio asse maggiore, del tutto a loro agio nell’acqua ammorbata degli stagni, grassa di piante in decomposizione – io ero già a conoscenza nel momento in cui Sean, con l’invadenza puntigliosa di una sincerità senza alcun dubbio corrotta dall’esibizionismo che è solito imbellettare di nobiltà d’animo ogni manifestazione troppo intransigente del senso morale, mettendomi al corrente a bruciapelo dell’avversione – implacabile e cocente com’è un getto di lava nell’istante preciso in cui colpisce l’inerme cespuglio di ginestra appena fiorito sul fianco brullo del vulcano – che sua madre nutriva nei miei riguardi e la cui assolutezza mi era stata quanto meno risparmiata sino ad allora dal severo mutismo e dalla quasi marmorea impenetrabilità della stessa Melissa, aveva deciso di ferirmi con la prodigalità di una confessione tanto dettagliata quanto non richiesta. Sì, io sapevo, e ricordavo anche una per una le parole malevole che avevo udito e le risatine di scherno per “la moralità con un occhio chiuso e uno aperto delle brave cattoliche” o le smorfie di impertinente disgusto di certe signore. Avrei potuto allora vuotare il sacco a mia volta e ripagare Sean con un’altra verità, non meno autentica di quella che lui mi aveva raccontata e parimenti riguardante sua madre, sebbene in veste d’imputata e non di accusatrice; avrei potuto farlo se soltanto mi fossi deciso anch’io a invocare a mia discolpa, con altrettanta, spietata teatralità, il dovere morale di comportarmi sino in fondo e nonostante tutto come un amico davvero sincero; e così facendo in un colpo solo mi sarei vendicato prima del disprezzo di Melissa, mettendo sul piatto della bilancia un giudizio ben più oltraggioso di quello che lei aveva espresso su di me proprio in quanto non mio – sebbene, con una certa perfidia istintivamente vile, potendo comunque negare qualora messo di fronte a una domanda esplicita, non mi sarei lasciato sfuggire l’opportunità di adombrare a priori una condivisione personale in fondo piuttosto logica e verosimile – ma bisbigliato da quasi tutti gli abitanti del quartiere, e poi anche della insensibile sincerità di Sean, che per rendere onore alla sua idolatria per la rettitudine non aveva esitato a infliggermi un’umiliazione tanto superflua in assoluto quanto di fatto penosa.
Alla fine, però, sull’impeto della rabbia aveva prevalso lo stallo della costernazione, come se in quel momento tutte le energie che avevo, paralizzando ogni strumento di corrispondenza con l’esterno a partire dalla stessa voglia di parlare, dovessero raccogliersi al servizio esclusivo della mia interiorità ferita per permettermi di affrontare le conseguenze di quel dolore un po’ come fa un porcellino di terra quando si appallottola su se stesso, offrendomi quanto meno l’occasione di ingannare gli occhi del mondo con l’enigmatica imperturbabilità di una corazza fragilissima.
Me ne ero quindi rimasto in silenzio, con lo sguardo leggermente sollevato e carico di inesattezza, lasciando la mia minaccia fasulla e senza innesco a galleggiare nel mondo potenziale dei destini interrotti, in mezzo ai bronchi secchi dei rancori e delle intenzioni, sapendo tra l’altro fin troppo bene che Sean, assai meno complicato e cerebrale di me grazie al suo talento per la tempestività nell’agire e per l’epica della vita, non avrebbe comunque trattenuto il trauma del colpo dentro di sé, rimuginandolo sommariamente in silenzio fino a farlo decantare in quattro e quattr’otto, e che quindi – certo di essere dalla parte della ragione come pure della mia deliberata cattiveria, tra l’altro in esplicito odore di ritorsione, nel riferirgli le dicerie della gente sul conto di sua madre – mi si sarebbe avventato contro cercando di prendermi a pugni per risarcire (come se fosse davvero possibile misurare il dolore senza adulterarne l’essenza una volta per tutte) la sua sofferenza morale col mio dolore fisico, appena prima di porre fine per sempre, e senza la benché minima esitazione, alla nostra amicizia.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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