Come ho detto, lei non parlava molto; in compenso però conosceva a memoria moltissime canzoni e sapeva cantare come nessun’altra (o almeno a me, anche e soprattutto per la scarsissima esperienza che avevo allora in fatto di donne capaci di farlo, pareva fosse così); e poi era in grado di riconoscere i fiori soltanto dal loro profumo, a occhi chiusi e senza mai sbagliare se non per prendere in giro qualcuno che l’aveva sfidata lasciandogli credere per un istante di aver vinto la scommessa. Quest’ultima cosa delle scommesse l’avevo vista accadere in verità soltanto tra lei e alcuni uomini del circondario, tutti individui piuttosto sciocchi e mediocri ai quali senza dubbio il profumo dei fiori non interessava affatto se non come strumento per indurla – lei di solito così inaccessibile e severa – a civettare con loro almeno un poco, accettando con ciascuno una prossimità tanto in assoluto esposta al rischio di essere fraintesa quanto almeno in minima parte davvero lusinghiera, che altrimenti avrebbe senz’altro evitato e che, comunque, lasciandoli immancabilmente delusi, era ben presto destinata a ricomporsi nella spoglia indifferenza – senza noia né passione – di sempre.
Oggi ho le mie buone ragioni – e più avanti cercherò in breve di spiegarle – per ritenere che il profondo ascendente esercitato su di me dalla signora McNult fosse dovuto in realtà a un impulso istintivo (e dal punto di vista del disincanto sintomatico di un’inesperienza ancora sovrabbondante di scorie del classico ordine sentimentale), che, al di là della sua più immediata mimetizzazione referenziale nel desiderio fisico e nella tipica cotta infantile per una bella donna adulta, rimandava al tacito riconoscimento di una natura affine. Credo onestamente che lei fosse, nel suo mondo e a suo modo, una donna disincantata; e che proprio per questo motivo io pensassi a lei ogni qual volta mi sentivo afferrato dal bisogno di una suggestione affidabile e tenace, una di quelle che, quando il disincanto era per me ancora solamente il destino immaturo di un punto di vista, aveva un senso (ma in assoluto, trattandosi solo di una deroga dovuta alla mia giovanissima età, non un significato) che io chiamassi a ridestare un po’ la mia vita, a scuoterla per bene nei momenti in cui se ne restava troppo a lungo in disparte a – non – fare non si sa bene cosa.
In una circostanza infatti, il cui ricordo conservo ancora incredibilmente preciso, talvolta anche appena dolente come una vecchia frattura saldata male ma prima di tutto concreto nella forma più ragionevole e persistente di un rimprovero, la signora Melissa, abbandonando a mia insaputa il disinteresse quasi glaciale che aveva sempre manifestato nei miei confronti e dimostrandomi implicitamente quanto in realtà fossero ambigue e quindi falsificabili dentro di me quelle emozioni dall’apparenza innocua che sembravano invece in tutto e per tutto conciliate con la natura distante e assolutamente mentale del rapporto che ero riuscito a creare con la sua figura, mi aveva causato il primo di quei segreti dolori, strazianti e silenziosissimi, che per anni avrebbero poi contraddistinto la mia penosa inclinazione di ragazzino introverso e di adolescente complicato a rimuginare su ogni minimo torto subito e a metabolizzare con estrema fatica e sempre solo dopo un’infinità di intimi rovelli, non di rado angosciosi, tutti i rifiuti, le meschinità, le prese in giro e le disillusioni di una difficile vita sociale, suggerendo a Sean – che poi, nella sua puntigliosa lealtà tanto esageratamente cameratesca quanto a dir poco indiscreta, si era sentito in dovere di venirmelo a raccontare – di smettere di frequentarmi. Secondo lei l’amicizia, ma soprattutto l’assidua compagnia, di un orfano malinconico e stravagante come me, con lo sguardo costantemente perduto in chissà quali astruse fantasticherie, non si confacevano affatto a Sean, bisognoso invece, sempre a suo dire, di tutta la normalità e del sano equilibrio che solo la buona abitudine alla vicinanza di amici spensierati e nel pieno, felice possesso della loro fanciullezza era invece in grado di assicurargli per davvero. Melissa riteneva che la mia inquietudine o anche la semplice pensosità che per natura mi capitava spesso di manifestare, in quanto definitivamente inconciliabili con la diuturna persistenza sopra la mia faccia di quei rosei vapori d’allegria infantile per i quali lei stravedeva, fossero altrettanti sintomi di una menomazione spirituale, di un vero e proprio malanno interiore dal quale anche suo figlio, se avesse continuato a starmi appresso, sarebbe stato prima o poi contagiato in maniera irreversibile; e questo tanto più in considerazione del fatto che durante gli anni trascorsi in Irlanda Sean si era già lasciato suggestionare non poco dalla rabbiosa passione politica e dagli slanci idealistici del padre, un uomo al quale lei, con la tipica acredine repressa che, nei legami familiari, può sempre oscillare fino all’astio conclamato nel misurare perpetuamente la caducità di ogni resa definitiva, non perdeva occasione di affibbiare la patente del buono a nulla “con la testa sempre tra le nuvole”, soprattutto perché, nonostante avesse comunque accettato di traslocare a Londra con tutta la famiglia per rimanere lontano dai guai, non voleva comunque saperne di porre fine una volta per tutte anche al sodalizio spirituale che sin da ragazzo lo legava a filo doppio agli ambienti più ortodossi dell’IRA, quelli contrari a qualsiasi alterazione di stampo marxista delle radici cattoliche del sentimento patriottico irlandese incoraggiate invece dalla fazione maggioritaria che faceva capo a Cathal Goulding.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti