L’UOMO DISINCANTATO – La Luna Nera (4)

Era una mattina davvero bellissima: levandosi all’improvviso, un forte vento di tramontana, quasi imitando ciò che avviene quando si soffia su un eccesso di schiuma che dondola e crepita all’apice di un boccale di birra, aveva in breve ripulito l’aria fino al suo orlo da una nebbia persistente, unta di gasolio e fuligginosa per gli scarichi delle auto e degli impianti di riscaldamento, che ormai da molte ore la stava soffocando. Il cielo era dunque finalmente solo azzurro e, come un abito della festa, vestiva alla perfezione la mia speranza e il mio desiderio di rivedere Miss Lilith, di rivivere di lì a pochi istanti quel nostro intimo incrocio di direzioni opposte sulla medesima via, stavolta però con la consapevolezza che ciò che in principio era avvenuto solo casualmente stava per diventare una regola.
Avevo messo a fuoco la mia strategia a partire dal tardo pomeriggio del giorno precedente, mentre camminavo piano avanti e indietro, senza scarpe e coi soli calzini da tennis imbottiti di tessuto spugnoso per godere del contatto con la soffice moquette del corridoio del secondo piano. Lassù l’odore sbiadito delle sigarette africane fumate da mia zia si era diffuso ovunque, come un retrogusto diventato parte integrante della qualità dell’aria, una nota olfattiva persistente ma nascosta, fragile e propensa a infiltrarsi soltanto nei contorni sottili delle corte e frequenti inspirazioni del mio naso, all’estrema periferia dei miei respiri tagliati ancora, a volte, dal sibilo di un’asma allergica congenita che, almeno in parte, resisteva, riposta ma all’apparenza irriducibile, alla graduale regressione che già da un po’ le stava imponendo la metamorfosi fisiologica del mio corpo, in pieno transito dall’estrema cagionevolezza dell’infanzia all’epifania quasi magica del vigore puberale. A un certo punto, per qualche motivo indeterminabile, la porta dello studio di zio Adrian si era aperta con un lieve schiocco metallico e, passandoci davanti, seppure con assoluto disinteresse, avevo intravisto l’interno, tutta la mitezza elegante della sua penombra, la diffusa parsimonia crepuscolare degli ultimi filamenti della luce del giorno intrappolati nella fitta ragnatela di tessuto acrilico delle ampie tende color mandarino attraversate in trasparenza da bande blu petrolio; la macchina per scrivere, posta al centro della scrivania in mogano dall’aria vagamente cattedratica pareva una larva addormentata, protetta da un bozzolo, grigio ma non senza grazia, di plastica opaca.
In sostanza il mio piano era questo: a seguito della contorta e travagliata dinamica dei fatti della mattina precedente, che per fortuna, nonostante mi avesse obbligato a sopportare in certi momenti un carico di rovelli e di apprensione quasi insostenibile per un ragazzino della mia età, alla fine era stata premiata da un esito felice, cioè dal secondo incontro con la mia candida, nera e bellissima Miss Lilith Langtry, un incrocio di corpi fatto ancora di solo movimento parallelo, serrato nello spazio del minimo sfiorarsi tra due circolazioni opposte dell’aria, e naturalmente più scosso rispetto al precedente dai frangenti di un’aura sentimentale ormai già bell’e pronta e definita e quindi ovunque identica a se stessa, sovrapponibile sia nella sfera intima e confusa delle mie passioni che in ogni dettaglio, dal canto suo invece minuziosissimo, del paesaggio circostante, poiché compiutamente astratta, tramata cioè di sola gioia adrenalinica e intrisa a tal punto dalla profondità, fattasi a poco a poco incommensurabile, del mio respiro ansimante, colto di sorpresa perché ancora del tutto vulnerabile e infantile, da essere a momenti addirittura gaudiosa, sebbene soltanto sotto forma di un miscuglio di cose a malapena elencabili, come certi misteri del rosario cattolico, avevo individuato da quale direzione proveniva quella ragazzina strabiliante, trasformatasi ormai, dietro una scia di pallida e oscura invadenza, nell’attributo essenziale dell’idea stessa di bellezza in ogni mio pensiero e aspirazione, solo in virtù del suo quotidiano e del tutto casuale cammino verso di me; e dopo aver calcolato la velocità media del suo passo a partire dall’intervallo di tempo intercorso tra i nostri due incontri, avevo concluso che mi sarebbe bastato anticipare ogni giorno di circa un minuto la mia uscita da casa per poi incrociarla via via più a ritroso e senza rischiare mai di perdere la continuità del corso del suo cammino – che avevo calcolato a sua volta come variabile – fino a risalire all’origine di tutto: la porta dalla quale usciva, il luogo in cui abitava.
Il nostro terzo incrocio era avvenuto esattamente diciassette metri prima rispetto al secondo e il quarto altri ventidue metri più indietro, e così via, di spazio in tempo e viceversa, giorno dopo giorno; i miei passi, tutti intimamente esultanti di un sentimento avventuroso, erano altrettante, poetiche unità di misura applicate all’idea platonica di itinerario, disposte come bellissimi calcoli algebrici lineari sui selciati e sui mantelli d’asfalto, a prescindere dal fatto che questi, soggetti alle conseguenze di un destino votato all’usura, fossero già quasi del tutto ingrigiti dal tempo, rattoppati da estemporanee colate più recenti di bitume artificiale, e incisi qua e là da reticoli scuri, superficiali e guizzanti oppure profondi e sbriciolati al loro interno in scomposti mucchietti di polvere color antracite dall’aspetto vagamente quaresimale, simili a quelli delle vene varicose, a quei minuti intrecci di capillari malati che spingono in superficie dei grumi viola sotto la pelle vizza delle gambe dei vecchi. Mi sentivo ottuso e vivace come un salmone durante la sua imprescindibile risalita contro la corrente, soggiogato da un istinto solitario fatto di ebbrezza e di desiderio e del tutto disinteressato – appunto alla maniera di quei sentimenti che, essendo i più limitrofi all’amore, sono anche gli unici parassiti credibili della sua assoluta vaghezza – alla fatica e alla morte.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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