L’UOMO DISINCANTATO – La Luna Nera (5)

Avevo impiegato sei giorni in tutto per andare a ritroso fino al portone di casa sua; sei segmenti macchinosi di spazio barocco, gioiosamente tramato dalle intersezioni dei miei calcoli e dei suoi passi e da altrettante fughe di tempo a tre voci – quella del mio a rovescio su quella del suo e poi entrambe contrappuntate, come in un doppio, rapido attraversamento di note, con l’ultima, dalla timbrica appena più scura e grave rispetto alle altre: la voce del tempo della vita, fatta dalla sua stessa, limpida astrazione, tanto nostra e segreta quanto pubblica e circostante – che rievocavano nel libero vuoto della corona circolare dei miei pensieri i lanci dapprima un po’ confusi di lenze ronzanti in volo sulla superficie liquida dell’ansia ma poi, quasi subito, una volta oltrepassata appena la risacca dell’ebbrezza, tesi finalmente a dovere e ben indirizzati, come da una sapienza soprannaturale, verso il loro luogo d’elezione; sei necessari anticipi progressivi e giorno dopo giorno più rocamboleschi della mia fin troppo ripetitiva e abituale uscita di casa mattutina per andare a scuola, seguiti a vista dal silenzio pensoso e gravido di sguardi dei miei zii, ancora incerti tra il desiderio di concedersi, accogliendo appieno il richiamo viscerale di un palese stupore, all’approvazione incondizionata per quel mio zelo improvviso da studente modello e la cauta tentazione di dare credito piuttosto ai ben più ragionevoli rovelli di un’altrettanto fondata diffidenza, prima di riuscire a scoprire quale mai fosse il luogo – in sostanza il comunissimo portone in legno bruno di un rispettabile condominio borghese che ai miei occhi si era però trasfigurato all’istante nell’ombelico del mondo, in una sorta di variante londinese dell’antro della Pizia di Delfi custodito da chissà quale britannico divino musagete – dal quale ogni mattina Miss Lilith cominciava, sempre col medesimo passo, il suo solitario cammino verso di me: un percorso scandito da un ritmo appena strafottente e baldanzoso e dall’ingenua ricercatezza di un’eleganza nel portamento ancora in tutto e per tutto elementare e quasi bambinesca, che proprio per questo, lasciandosi incrinare a tratti da minimi tremori nell’andatura e soprattutto da evidenti esitazioni emotive, peraltro chiaramente detestate già al loro mostrarsi in poche ma evidenti tensioni dei muscoli del suo volto, al momento cruciale di ogni nostro incrocio, mi si manifestava fin troppo ligia a una banale attesa narcisistica in cerca di appagamento.
Il settimo giorno, dopo aver portato a termine con un’ultima conferma la missione che mi ero dato, certo ormai del fatto che non avrei più potuto perdere – almeno a motivo di una circostanza puramente casuale – il mio incontro quotidiano con Miss Lilith, avevo deciso di non andare a scuola: la mia felicità, così assoluta e tersa, non me lo consentiva!
Avevo quindi raggiunto la riva più vicina del Tamigi, arrampicandomi sopra tanti brandelli di vite umane a me ignote, che comunque in quel momento non avevano nulla in comune con la mia, e attraversando un coacervo quasi natalizio di luci abbaglianti di autoveicoli in transito e di suoni forti di passi vitali e festosi; e mi ero infine trovato a tu per tu col grande fiume, gonfio di pioggia e di nevischio fuso, lumeggiato a chiazze dalle tenui schiarite del cielo londinese: un mosaico serpentino di arcobaleni oleosi e di rami spezzati, culla di gabbiani dormienti o alla cova, che si muovevano dissennatamente, spesso tenendo con prudenza la testa sotto un’ala.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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