L’UOMO DISINCANTATO – La fuga

“Io faccio la stronza solo per non nascondere quanto tengo a te per davvero…” mi aveva sussurrato ʽpeppermintʼ Phoebe sorridendomi mentre se ne stava seduta sul letto, ancora completamente nuda – una figura levantina, nera e olivastra, circondata dalle lenzuola di lino rosa sulle quali nel frattempo si asciugavano le macchie dei nostri orgasmi – e con le gambe stette tra le braccia, rannicchiate contro le due piccole mele acerbe del suo seno predestinato al fermo immagine di una definitiva adolescenza, mettendo in mostra un’espressione del viso che si adattava alla perfezione alla sua simpatia standardizzata, del tutto inespressiva, da tipica adolescente turbolenta degli anni ’60 destinata, in quanto figlia di genitori tanto danarosi quanto deboli, a evolversi nel corso del decennio successivo, con l’imperturbabile disposizione di chi sfoglia la vita come se fosse una rivista di moda, in una piccola donna volubile e bugiarda, capace solo di giocare con la sua vita e sempre a spasso coi tempi.
Nessun sentimento che avesse voluto conservare una sia pur minima dignità sarebbe stato in grado di sopravvivere a una dichiarazione d’amore del genere: pertanto, prima che lei pensasse di abbattermi definitivamente canticchiando per me una di quelle canzonette da primo anno di college che era solita ascoltare alla radio o – peggio ancora – di leggermi una poesia strampalata scritta da uno dei suoi amici bohémien, avevo atteso che andasse in bagno a rifarsi qualcosa, circostanza che per fortuna capitava in media ogni mezz’ora, e poi ero uscito di soppiatto da quel monolocale dall’intonaco squamato e rugginoso, soffocato tra quattro mura sonnacchiose che, per ironia della sorte, facevano da schermo agli aloni stralunati delle luci stroboscopiche appese al soffitto o lasciate negli angoli a oscillare come pendole tra sagome gommose di colore, e destinato alla rapidità adolescenziale degli incontri clandestini tra due minorenni benestanti, tanto sfrenati fra loro in segreto, sospinti da una rivoluzione sessuale appena cominciata, quanto disposti poi in pubblico a fingere ancora un sia pur pallido rispetto delle traballanti prescrizioni borghesi.
Un volta in strada avevo perfezionato la mia definitiva evasione da quell’incubo con un’atletica fuga precipitosa.
Avevo iniziato a correre sul marciapiede sfrigolante e lunghissimo, sotto un tardivo sole umido, sudando dentro il giubbotto, mentre la maglietta mi si attaccava alla pelle e mi bruciava addosso tutto l’istinto con un cocente barlume di speranza, come se fosse una candela accesa di fronte alla solitudine fin troppo rumorosa della mia memoria. Procedevo di slancio, senza risparmiare uno solo dei respiri sempre più affannosi che avevo a disposizione, perché non sapevo verso chi o cosa io stessi correndo; con ogni probabilità correvo  soltanto verso il desiderio di un abbraccio, stremato dalla forma sbagliata di tutti quelli che mi ero scambiato con Phoebe. Poi, giunto immensamente stanco là dove coincidevano la fine della fatica e quella della strada, appoggiato ansimante con la mano aperta contro una sudicia porzione qualsiasi del muro di un arco piccolo sotto un cavalcavia, avendo catalogato e riposto alle mie spalle ogni impellente desiderio di chiarezza, piegato in due dal battito del cuore, chiusi gli occhi e, sorridendomi con un immenso dolore luminoso, mi abbracciai, e con me stesso il vuoto, ovvero tutto ciò che dell’amore umano ancora mi restava da credere: l’assoluta mancanza.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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