L’UOMO DISINCANTATO – Peter accetta finalmente di fare visita a Lord Finnegan (1)

Erano giorni ormai che Lord Finnegan aveva chiesto a Peter di incontrarlo per essere messo al corrente in merito allo stato dei preparativi di tutte le singole “eccezioni” – come le chiamava lui – che avrebbero dovuto caratterizzare in modo peculiare e impareggiabile il grande torneo del centenario di Wimbledon, coincidente col giubileo della regina, in programma per l’anno successivo. Perfettamente a proprio agio con l’atavico maschilismo normanno che, sebbene digrossato, in linea con la sottile modernità di una raffinatezza comunque non moralmente vincolante, costituiva uno dei pilastri irrinunciabili della sua visione del mondo, il Pari d’Inghilterra non nutriva particolare fiducia nelle capacità organizzative di Oedipa Boot, ufficialmente sua plenipotenziaria e facente funzioni, e contava appunto su Peter per il ruolo di supervisore occulto e, ovviamente, di referente segreto.
Per parte sua, grazie alle pasticche di D.O.G., dalle quali ormai dipendeva, Peter si trovava in quel momento in uno stato di quasi morbosa applicazione agli allenamenti sul campo – naturalmente nella prospettiva più esaltante della sua vittoria finale nel torneo – e le uniche concessioni che faceva al versante intellettuale della sua esistenza erano costituite da una serie quasi ossessiva di ipotesi e di riflessioni che avevano comunque nel tennis l’elemento centrale. Quando rifletteva su quella disciplina sportiva che aveva segnato la sua vita in modo tanto profondo, l’idea che ne aveva andava squadernandosi nella sua mente a poco a poco. A volte il tennis gli appariva, per esempio, come una specie di custodia o, meglio, di astuccio del tempo e dello spazio e dei conflitti che sempre attraversano furtivi il loro strano intreccio; esso era l’ambiente artificiale perfetto – quasi da esperimento scientifico – di un’esperienza nascosta e a tal punto implicita di entrambi da potersi permettere il lusso giocoso dell’evidenza più assoluta: lo sport. Cos’è – si domandava allora – uno scambio durante una partita se non l’evocazione dei rintocchi di un metronomo, delle sue oscillazioni sospese a ordinare una musica che tuttavia non può manifestarsi perché durante il gioco anche il pubblico è obbligato al più rigoroso silenzio (non di rado imposto con un certo, severo sussiego dai richiami dell’arbitro di sedia)? Gli si palesava così lo spettro di un equivoco di fondo, che aleggiava però in modo talmente recondito da passare di norma e non senza ragione inosservato: uno scambio tennistico è tale perché ignora la musica e tuttavia non il suono ideale del suo tempo, è una sorta di contrazione sinfonica dell’attesa e del desiderio; ma non è tutto: lo scopo ultimo di ogni scambio è sempre la sua conclusione che, nel contesto di una partita, coincide da regolamento col punto assegnato a chi lo vince. Eppure sono infiniti i punti delle diagonali che, in quanto lati, delimitano il perimetro delle figure geometriche disegnate sul piano dai colpi dei giocatori e quindi, se quello vincente definisce in pratica le loro aree una volta per tutte, essi non cessano tuttavia di persistere, ribadendosi in teoria in eterno, senza soluzione di continuità: la realtà della materia si ferma, la possibilità della forma, invece, scivola via libera ancora e sempre e senza condizionamenti. È come se così, in una partita di tennis, lo spazio rubasse al tempo la sua potenziale eternità; uno scippo al quale ovviamente il tempo, in quanto dimensione a sua volta, non può semplicemente rassegnarsi, cosicché, quando i colpi dello scambio si caricano invece di effetto e le traiettorie iniziano a curvarsi e a piroettare nell’aria, ecco spandersi ovunque le asole del simbolo ∞ – l’infinito – che di nuovo la fine dello scambio e l’assegnazione del punto interrompono sottraendo stavolta allo spazio, e forse addirittura con maggiore brutalità, la sua virtuale infinitezza.

(estratto dal secondo volume)

©Andrea Rossetti

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