L’UOMO DISINCANTATO – Il vero amore

La prima visita della Lady al Digamma Cottage nel quale Peter aveva ormai definitivamente traslocato coincise con una semplice cena a due, del tutto informale e tuttavia incalzata da una subdola vocazione al distacco formale dell’eleganza, ben strutturata su gelide folate di intorpidimento intellettuale che, nonostante l’azione eversiva del robusto vino rosso francese servito in accompagnamento alle portate principali, irrigidivano puntuali il languore necessario a ogni slancio e abbandono. La reciproca osservazione scientifica era ancora pienamente imperativa ed esigeva, senza ribassi, una congrua distanza dei rispettivi punti di vista.
Che in quelle condizioni fosse difficilissimo trovare il bandolo della matassa di un’intimità fisica verosimile, quindi non necessariamente subito del tutto vera ma neppure falsificata a priori dalla solita chimica estemporanea dell’accoppiamento, era ben chiaro sia all’uno che all’altra; eppure entrambi si sentivano forti abbastanza per nutrire con ammiccante complicità, portata dopo portata e soprattutto bottiglia dopo bottiglia, speranze piuttosto ottimistiche per il futuro.
Nei tratti del viso della Lady, che intanto mangiava, beveva, sorrideva, rideva e parlava di fronte a lui con composta gentilezza, Peter non cercava più alcuna perfezione – che come sempre avrebbe portato con sé un’ombra d’impassibile pesantezza – ma unicamente l’assenza lieve e vivace di qualsiasi mediocrità; e quando poi, sulla terrazza schiarita dalla moltitudine armoniosa delle fiammelle di una teoria di candele custodite una per una dentro piccole coppe di vetro soffiato di Murano e disposte nello spazio su trespoli esili e neri di ferro battuto secondo la successione di Fibonacci, il solito, greve vento inglese, benché per sua natura di rado temerario, si era appena accostato con la meschina brevità dei suoi refoli allo splendore dei capelli di lei, mischiando la verità originaria del loro colore con tutte le imprevedibili oscillazioni cromatiche impresse sul paesaggio dalla processione matematica di quei piccoli fuochi dondolanti e sempre più avviticchiati al calare vertiginoso del buio, lui aveva avvertito l’istinto, inetto e rabbioso, di cacciarlo via, perché in quel momento a niente e a nessuno, nemmeno al vento, avrebbe potuto permettere di sottrarre alla sua mano il diritto magico ed esclusivo di accarezzarla.
Nella vita degli uomini più fortunati c’è sempre un giorno in cui si imbattono nel solo viso che non dimenticheranno mai. Comunque vada, sia che l’incontro porti con sé felicità oppure sofferenza, quel giorno è sempre un privilegio e accade una volta per tutte, per rimanere, fino alla fine, come una cicatrice o una pietra preziosa. Perché ci si incontra davvero soltanto nell’eccezione e ci si trova infine nel dirsi addio; perché, a differenza di quanto si è soliti credere, la felicità non è una condizione ma la sua premessa, e tutto ciò che non ti minaccia, che non t’inganna o deruba, che non mente a te e su di te, che non ti ferisce mai e ti lascia sopravvivere in santa pace, non è amore, è dialogo.
Svegliandosi il mattino successivo, dopo quella prima notte passata con la Lady, mentre lei ancora dormiva raggomitolata nuda tra le lenzuola e i cuscini come una morbida ferita rosa in via di guarigione, Peter trovò ad attenderlo fuori dal letto né più e né meno che il solito vuoto interminabile, acquattato come sempre intorno alla sua vita e, così come accadeva ogni giorno, pronto a darlo per scontato.
Per colpa di una prolungata disattenzione, frutto senza dubbio di uno dei tanti effetti collaterali delle pasticche di D.O.G., era consapevole di essersi seriamente innamorato, ma di un innamoramento vero, raffermo, che andava ben al di là del consueto e palpitante ordito di sguardi e di tachicardie, di tenerezze e accoppiamenti, che di norma in società si considera tale; e sapeva benissimo che ciò era accaduto contro ogni sua ragionevole aspettativa e scombinando tutti i suoi programmi di assoluta dedizione agli allenamenti per il grande torneo del centenario (durante il quale contava di poter disputare in finale quella partita di tennis perfetta che da anni, con fregola matematica, andava studiando a tavolino); e mentre si malediceva per questo doveva anche patire una sensazione tragica di capogiro perché l’amore non dà mai un senso alla vita ma invece la confonde e la perde tendendole l’imboscata accattivante e velenosa del dono di un nome (il vero amore, quello cioè che non si lascia celebrare in dichiarazioni di principio solo per poter essere poi rinnegato in altrettante giustificazioni di fatto, è in fondo un po’ come la mela dell’Eden rubata per gioco dai sette nani, dietro le quinte della favola principale e senza commettere alcun peccato, mentre sul palco sta già andando in scena la morte e la resurrezione di Biancaneve).

(estratto dal secondo volume)

©Andrea Rossetti

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