L’UOMO DISINCANTATO – Finale del secondo volume (3-fine)

Mentre, lasciandosi guidare da uno sguardo ricondotto una volta per tutte a sé dal disincanto, esplorava di nuovo ogni angolo di Wimbledon, il palcoscenico sul quale per un po’ la sua vita era andata in scena con la delicatezza generosa e normale di un dolce inganno mondano, Peter si imbatté per caso nella vicenda, di per sé piuttosto marginale, del conflitto che proprio in quei giorni aveva opposto, tra boicottaggi, scartoffie e tribunali, un gruppo molto agguerrito di animalisti ai gestori di un circo, i quali alla fine erano stati costretti alla resa.
La visione della lunga teoria degli animali liberati dalla prigione del circo, che gli pareva infinita mentre dondolava procedendo lungo le sponde del fiume Wandle, a quell’ora insolitamente scure, così scure da sembrare addirittura sporche nell’abbagliante confusione di una luce in malo modo sprovvista di misura, e che, senza accampare il bisogno ordinario di un vero e proprio luogo verso il quale andare, si distaccava semplicemente dal mondo circostante, col candore assoluto di una massima imprecisione, sollecitata soltanto da un punto anonimo e marginale segnato sopra quelle carte di Londra che già allora servivano più che altro da ventaglio ai turisti accaldati, sorprese Peter come una processione diretta verso un’Arca di Noè del tutto presunta e tuttavia perfettamente presumibile, fiabesca nel suo stranamente muto ridondare di versi ferini, velata e scintillante tra la terra e il fiume.
Gli animalisti avevano vinto infine la loro battaglia e l’odiato circo era stato chiuso d’imperio, con la risibile, pomposa perentorietà che affligge sempre le sentenze dei tribunali e che legittima le conseguenti azioni di polizia; ma quelle bestie incolpevoli, brutalizzate nel turbine tutto e solo umano del loro destino, a prescindere dal tipo di sentimento, animalista o circense, che a priori lo muoveva, lo intenerivano per la solennità  e la rassegnazione che mostravano. Esse infatti avanzavano e tenevano stretto, nel serrare le fila della loro incredibile passerella lungo il bordo del fiume, il comune denominatore dell’andare via, e guardavano la gente che stava intorno senza interesse né comprensione, assorte in una saggia stanchezza da fine carnevale, in fondo commiserandola, ma senza alcuna superbia. Nell’impossibilità oggettiva di essere rimpatriati, quegli animali concedevano al loro pubblico un ultimo spettacolo, quello della follia bugiarda della propria liberazione, appena prima del rompete le righe che le avrebbe condotte, in ordine sparso, dal circo a uno zoo.
Peter, distrattamente accasciato su se stesso, provò per gioco a salutare, fra i tanti animali, un cavallo andaluso cinerino, che però si girò subito dall’altra parte, invero troppo incantato dalla perfezione del filo dell’orizzonte tessuto dalla luce dell’acqua del fiume e dall’onda lieve e costante dei fili d’erba. La vita – la sua così come quella di chiunque – gli si rivelava oramai senza infingimenti come un gioco semplice, un’illusione in cui tutto – e soltanto per un debito con l’istinto della sopravvivenza – sembrava restare in sospeso tra la necessità di scorrere e la voglia di rimanere: vivere normalmente il quotidiano era in sostanza la cronaca più o meno prolissa di una falsa indecisione; ma per un uomo disincantato – e Peter ne era ormai consapevole sino in fondo – quella continuità non poteva che spezzarsi in una soluzione definitiva perché l’unità di misura più certa e inconfessata del disincanto era il tono sicuro delle voce di chi riesce a tacere mentre dice addio.

(estratto dal secondo volume)

©Andrea Rossetti

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