L’UOMO DISINCANTATO – Finale del secondo volume (1)

Quando Mignon, la giovane e taciturna turista francese dagli occhi blu, sovrabbondanti ancora di un’appena trascorsa adolescenza, e dotata di un sorriso fragilissimo che, mossa da spensierate esasperazioni di cortesia, amava scialacquare ovunque ne avesse l’opportunità, lasciò, a bordo di un maggiolone cabrio color rosso carminio, la piccola pensione a conduzione familiare, posta lungo la strada che cingeva dabbasso la collinetta sulla quale sorgeva il Digamma Cottage, nella quale da un bel po’ di tempo si trastullava insieme a un ragazzo magrissimo, dall’accento scozzese e dalle movenze elettrizzate tipiche dei cocainomani, Peter, che nel frattempo si era abituato a vederla, a salutarla, a incontrarla, a offrirle alle volte un caffè o un aperitivo, fino a considerarla una presenza naturale e decisiva di quel suo mondo giunto ormai all’apice della propria dolorosa contrazione, provò un’inattesa, sconcertante sofferenza, una specie di fitta come quelle gravi del mal di cuore, priva tuttavia di ogni ferocia patologica.
Dava per scontato il fatto che non l’avrebbe mai più rivista, che non l’avrebbe incrociata ancora e ancora per le vie di Wimbledon; era consapevole di dover rinunciare per sempre al suono appena un po’ garrulo della sua voce e del fatto che lei non gli avrebbe mai più sorriso così come faceva, trascendendo nella spontaneità luminosa dei tratti del suo volto le fredde consuetudini della buona educazione, ogni volta che lo vedeva seduto a un bar, col bicchiere colmo di whisky tra le mani; e questo fu sufficiente a intenerirlo con l’enfasi strana del rimpianto.
Va precisato che Peter soffriva da sempre di una sindrome che lui definiva ‘italiana’ – anzi leopardiana, per via del famoso poeta – della sera del dì di festa. Era forse, tra tutte, la sua infermità più dolorosa. Egli non temeva la morte come evento definitivo, bensì nel suo quotidiano e cinico centellinarsi. Non sopportava la singola, particolare, circoscritta fine della festa. Questo strazio insopportabile lo perseguitava fin da quando, da ragazzino, le mamme, compresa la sua, dopo una qualsiasi festa tra compagni di scuola in casa di chicchessia, venivano a riprendere i propri figli, inesorabili, citofonata dopo citofonata, mentre scendeva il buio e intorno tutto fatalmente languiva e si spegneva: era lo spregevole tradimento dell’attesa di un bambino, ancora troppo poco cicatrizzato per aver elaborato una normale attitudine alla sopravvivenza, così ordinaria, così a priori conciliata con la piccola quotidianità borghese della morte, ridotta a faccenda funeraria: oggi a te, domani speriamo non a me.

(estratto dal secondo volume)

©Andrea Rossetti

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