L’UOMO DISINCANTATO – E mia madre era morta per sempre (5)

Alla fine era un po’ come se i percorsi di quella logica tanto rigorosa nel metodo quanto libera e alata nei contenuti mi avessero coinvolto mio malgrado in una versione stravagante del mito delle metà narrato da Aristofane nel “Simposio” di Platone, avente me in questo caso come solo protagonista. Ero io infatti l’ermafrodito di me stesso e non per una questione di genere, maschile e femminile, bensì in ordine all’unità oggettiva e intangibile della mia persona, messa d’un tratto alla prova proprio da quella specie di deragliamento improvviso che aveva orientato verso un’unica direzione le molteplici verità della mia vita – da sempre altrimenti scomposte e ricomposte e poi di volta in volta accomodate, grazie ai buoni uffici di una generica diplomazia esistenziale, solo per via della loro continua e necessaria osmosi coi dati di fatto – a causa della mia fin troppo ostinata e inconcludente attitudine alla semplice gioia dell’abbandono – l’unica che fino a quel momento avevo preso istintivamente in considerazione, come del resto la stessa vicenda del mio lutto stava ad avvalorare – e quindi alla leggerezza dei desideri e all’assoluta eventualità di pensieri senza alcun dubbio astratti ma che sarebbe stato comunque ingannevole considerare anche fantasiosi, giacché in ogni caso una razionalità più che disciplinata ne sorvegliava sino in fondo l’ineffabile coerenza. C’era inoltre un’ebbrezza quasi erotica in quello stato di cose perché, nel caso in cui la mia unità presente fosse stata scissa dai diversi destini di coppia effettivamente percorsi dai miei genitori, le possibilità da considerare erano assai numerose: per esempio che le mie due metà, per parte di madre e di padre, nascessero in due individui dello stesso sesso, due maschi o due femmine; oppure che la mia metà per parte di madre prendesse vita in un maschio e quella per parte di padre in una femmina, o viceversa. Insomma ogni eventuale, successiva relazione tra le due parti di me stesso – che non si poteva escludere fossero addirittura chiamate a cercarsi da un istinto ancestrale, proprio come accade nel mito delle due metà – avrebbe potuto prendere di volta in volta la forma di un’amicizia, di un amore eterosessuale o di un amore omosessuale; senza contare poi la promiscuità, o dovrei dire meglio la fusione, con le parti derivanti dall’accoppiamento dei miei genitori con l’altro marito e con l’altra moglie.
La coerenza della logica più assoluta aveva infine scomposto la solidità empirica del mondo reale, spacchettandolo completamente e offrendolo, così ridotto, alla mia contemplazione intellettuale, appena prima di fermarsi al di qua di ulteriori sviluppi combinatori che, sconfinando nella pura fantasticheria, sarebbero stati tutti egualmente possibili e quindi in fin dei conti solo un azzardo improduttivo. Eppure era indubbio che la mia vera vita, sebbene trasformata in una sensazione diversa e più ambigua rispetto a prima, continuasse ad aleggiare sul rigore di quell’ordine astratto in modo simile a un collante irriducibile, a un comune denominatore affettivo, di modo che, così come ero stato l’ermafrodito di me stesso nella ragione, perduravo ora nel sentimento con la stessa leggerezza di un amore recente, di un’intesa fatta ancora soltanto di zuccherose percezioni, di mezzi sguardi e trattenuti sfioramenti, in cui il ricordo di mia madre, strattonato dalle sopraggiunte incertezze della verità, se ne stava comunque distante da me, in bilico tra l’abbandono al lutto e la tentazione della favola.
Il problema che a poco a poco mi si era posto spontaneamente, cioè non in quanto apice di un ragionamento vero e proprio ma con la progressiva, vincolante evidenza di una semplice sensazione, aveva infatti a che fare con la verità, che nel frattempo, invece di accasarsi in modo chiaro dentro di me dalla parte della logica o da quella della realtà, si era invece allontanata dai miei pensieri per una specie di confusa discrezione e, senza dare più cenni di interferenza, se ne restava in disparte, sospesa ed equidistante, sottraendo almeno apparentemente la propria energia vitale sia all’una che all’altra. Da che parte stava dunque la verità e, soprattutto, a che punto era il suo cammino? Io, come la sentinella nel libro del profeta Isaia alla quale viene posta una domanda più o meno simile circa la notte (Shomer mah milailah?), mi davo – nei sentimenti più che nelle parole – una risposta altrettanto ambigua: “Viene la bugia, poi anche la verità. Se vuoi chiedere, chiedi pure; ma poi torna e vieni ancora”. Quindi ciò che mi attendeva (allora lo intuivo solamente e a onor del vero non saprei dire se anche in seguito l’ho mai capito a fondo per davvero) non era né mai sarebbe stato una risposta – perché le risposte servono a delimitare e a conciliare, e poi, a scanso di equivoci, finiscono anche con l’assegnare un preciso valore – ma soltanto, e nel modo più sottile, la vaga prospettiva di una risposta sempre di là da venire, il suo defilato punto di vista scarno e originario, un paesaggio da abitare e eventualmente da completare né più e né meno che come un album di figurine. La verità si era dunque ritirata da ogni forma di assetto definitivo; essa rinnegava i contorni di qualsiasi presa di posizione e si specchiava, sempre assolutamente identica e senza partigianerie, sia nel metodo della logica che nell’esperienza della realtà. A ciascun ambito era attribuita la possibilità di verificarsi: così se il lutto, il dolore per la morte di mia madre, la consapevolezza della perdita irreversibile, se la realtà effettiva del nostro essere stati madre e figlio mi precipitavano nell’enfasi dolorosa della memoria e dei dati di fatto, ecco che invece il riconoscimento ideale di un’altra vita per entrambi, quella rilevata dalla logica nella contemplazione astratta delle infinite potenzialità del caso, mi restituiva la distanza interiore e il dolce senso del viaggio di un meticoloso lettore di portolani e, ancora, lo sguardo vagante di un appassionato di cartografia, capace di sorvolare, di fare una sintesi mirabile e in punta di matita di tutta l’ampiezza – terrestre e mai terrena – che ha di fronte. Ed era proprio a partire dall’esperienza dell’equo e non contraddittorio convenire della verità con entrambi i piani della percezione delle cose – quello attuale della realtà e quello potenziale della logica – e quindi del periodico farsi avanti ora dell’una, ora dell’altra prospettiva, che la vicenda del mio lutto per la morte di mia madre stava per prendere, per così dire, la forma di una danza.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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