Mentre ero lì, più o meno sfiorato dall’idea che a muovere i fili del sentimento del lutto fosse in sostanza solo il mio rifiuto ipocrita e disperato dell’intuizione della certezza di poter vivere facendo a meno di chiunque, la prima idea – tanto scontata quanto inevitabile – con la quale mi ero sentito obbligato a confrontarmi nel momento in cui, accompagnata all’inizio dal profumo e poi dal sapore della crema pasticciera, si era schiusa di fronte ai miei pensieri tutta la profondità dell’aura di quel nuovo ordine di cose – alla prima impressione per la verità sgradevole e fredda come il disco metallico dello stetoscopio allorché viene accostato al petto o alla schiena di un malato febbricitante – era stata quella che in fin dei conti mia madre avrebbe potuto benissimo essere la madre di chiunque altro, se non proprio di fatto a questo mondo, volendo comunque mantenere una correlazione di massima con la realtà oggettiva, di sicuro in linea di principio nella città di Londra, dov’era nata e aveva vissuto. La circostanza che lo fosse poi in effetti diventata – mia madre – era infatti dipesa soltanto da una serie di casualità, da una sequenza di comuni e fortuiti accidenti dei quali lei non poteva in alcun modo essere considerata responsabile se non per il fatto, ancora una volta mediato, che la sua natura l’aveva indotta ad assecondarli. Era impossibile per me non riconoscere l’evidenza che se mia madre avesse incontrato un altro uomo invece di mio padre, un uomo magari simile, capace di corrispondere a determinate aspettative e ad armonizzarsi in modo altrettanto accettabile e sufficiente ai bisogni imposti dalle inclinazioni della sua indole e della sua moralità, le cose sarebbero andate in maniera del tutto diversa, addirittura anche se mio padre l’avesse poi incontrata comunque, magari soltanto il giorno dopo, con un ritardo di appena ventiquattro ore, quando però lei era ormai già irrimediabilmente innamorata di un altro. Trascinato dal flusso potente ma disciplinato e razionale di questi pensieri riuscivo a quel punto a sentirmi quasi un estraneo rispetto a mia madre; non in senso emotivo però (eventualità che tra l’altro mi avrebbe subito fuorviato verso il senso di colpa), giacché avvertivo immutati dentro di me tanto il dolore per la sua perdita quanto il conseguente smarrimento per la sua definitiva mancanza, che appartenevano infatti alla sfera della realtà verificata, bensì sul piano logico che, avendo a che fare dal canto suo con l’ambito della possibilità verificabile, la distanziava da me, al punto che mi pareva di condividere a livello di sensazione la prospettiva di chi stia guardando qualcuno che conosce molto bene dalla sponda opposta di un fiume. C’erano pochi dubbi sul fatto che si fosse determinata una scissione tra la logica e la realtà in seguito alla quale la seconda aveva perduto quel controllo sull’altra che sino ad allora era riuscita a mantenere grazie all’impero assoluto del sentimento del lutto. Cosa sarebbe avvenuto dunque se mia madre non avesse sposato mio padre ma l’uomo, tanto simile a lui, conosciuto e amato dal giorno precedente a quello del loro – a quel punto infruttuoso – incontro? Senza alcun dubbio io non sarei mai nato, quanto meno non nella forma conseguente all’accoppiamento dei gameti dei miei genitori, che in quanto tale ovviamente non sarebbe mai avvenuto (se non nell’eventualità di una successiva relazione adulterina tra mia madre e mio padre – dando appunto comunque per avvenuta la loro conoscenza – che mi avrebbe reso o un figlio illegittimo o il fugace protagonista di una gravidanza sgradita e presto interrotta). E questa considerazione, balenata all’improvviso tra i ragionamenti sempre meno intorpiditi della mia mente, mostrandomi così, tutto in una volta, l’abisso che c’è tra le potenzialità mostrate dalla logica e le anguste contingenze indicate invece dalla realtà, mi aveva consentito l’accesso a una serie di deduzioni tanto vertiginose quanto ineccepibili: se, infatti, i miei genitori non si fossero mai sposati né accoppiati, io di sicuro non sarei nato; e malgrado ciò una parte di me sarebbe stata pur sempre nel figlio o nella figlia che entrambi avrebbero potuto avere con l’altro marito e con una moglie diversa, cosicché queste due frazioni di me, separate dalla nascita, avrebbero poi potuto incontrarsi nel corso degli anni e magari fare amicizia o addirittura innamorarsi.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti