Anzitutto, però, dovevo fare ancora la mia prima esperienza compiuta ed essenziale di ciò che col tempo avrei imparato a chiamare disincanto e che, traendo vantaggio dalla mia profonda confusione emotiva del momento così come avrebbe fatto un seminatore esperto in presenza di un fertile appezzamento di terra grassa e ben rigenerata, era ormai prossimo a cantarmi la sua cavatina, per dirla in termini operistici. Ci ero arrivato – sullo slancio messo in moto grazie all’energia sprigionata dall’attrito tra la gravità rudimentale del dolore per il lutto e la geometrica risposta degli schemi della logica – subito dopo aver fatto i conti anche con l’intima consapevolezza della rivisitazione che, proprio come la verità, ma dall’altro lato dello specchio, non poteva non aver patito nel frattempo anche la menzogna. Quest’ultima non aveva sfruttato a proprio vantaggio la presa di distanza prospettica attuata dalla verità per conquistare terreno, così come si sarebbe stati tentati di supporre facendo riferimento alle dinamiche elementari della vita morale, perché lo stesso vincolo di equidistanza imposto alla verità da un sentimento superiore e del tutto misterioso l’aveva obbligata ad adeguarsi, assumendo a sua volta un punto di vista speculare e altrettanto distaccato: ecco che allora la realtà doveva essere riconosciuta potenzialmente menzognera rispetto alla verità logica tanto quanto la stessa logica lo era in atto in relazione alla verità reale.
Questi sdoppiamenti paralleli della verità e della menzogna nel loro relativo attribuirsi erano andati a occupare i quattro vertici mobili di un ideale quadrilatero convesso che, quindi, ondeggiava di continuo, accorciando o prolungando simmetricamente i suoi lati a seconda delle singole emozioni e delle diverse circostanze, sempre però a parità di perimetro e di area.
Un siffatto quadrilatero sentimentale, i cui angoli interni, una volta sommati, erano senza eccezioni un’impeccabile visione a giro di 360°, ma che l’instabilità dei vertici rendeva comunque solo a tratti inscrivibile entro i confini rassicuranti della circonferenza del tempo, era appunto l’immagine precisa del disincanto. Io l’avevo percepita così, come se il lampo di una tempesta potesse condividere la natura solitaria e perduta della luce intrisa di foschia e scossa dal verso dei grilli di un lampione posto al confine di un campo di segale, sentendomi a casa (che è poi solo un modo cretino di definirsi non del tutto infelici).
Tornando ora al sentimento danzante a cui accennavo in precedenza e che si era rapidamente impossessato dell’intera faccenda imprimendole un andamento in parte nuovo e in parte ereditato dai lunghi preludi durante i quali, come ho detto, il sonno e la veglia e i sogni e la coscienza si erano contrapposti e confrontati, è necessario precisare che, dopo l’impennata del grande volo logico, quello in cui la figura di mia madre si era lasciata contemplare dalle mie riflessioni e nei miei turbamenti addirittura in rapporto alle vicende, assolutamente ipotetiche, sprigionate dal pensiero dell’eventualità che la sua vita avesse un giorno svoltato all’improvviso, attratta da un’altra parte e da chissà che cosa, molto o poco prima di imboccare la strada che invece l’avrebbe dovuta condurre sino al mio concepimento, ciò era avvenuto a partire da un’ulteriore declinazione di quella prospettiva che, grazie ai pasticcini alla crema decorati con le scaglie delle mandorle tostate mediante in quali mia nonna aveva tentato di raddolcire la sofferenza di entrambi, complicando ai miei occhi l’immagine di mia madre, aveva definitivamente scosso l’ordine rituale del dolore e del lutto. Se infatti, a rigor di logica, mia madre avrebbe potuto addirittura non essere mai tale semplicemente innamorandosi di qualcun altro e quindi mischiando con lui i propri geni anziché con quelli di mio padre per dare vita a un individuo – maschio come me o femmina come chissà chi – nel quale una parte di ciò che sono si sarebbe ricombinata in qualche modo con dei cromosomi destinati ormai a rimanere misteriosi per l’eternità, era invece praticamente certo che la donna che avevo conosciuto e amato fosse stata comunque in certe zone della sua vita una persona diversa, più complicata e magari sorprendente rispetto a quella convenzionale stabilita e quasi sequestrata dalla percezione di un figlio. Dal mio punto di vista la morte la riguardava come se in vita sua fosse stata solo mia madre ma c’era tutto un mondo articolato e multiforme, uno spazio-tempo carico di conoscenze, di avvenimenti, di emozioni che non mi comprendeva e che non mi avrebbe mai incluso, rispetto al quale lei era parimenti morta e di cui infine mi ero reso conto di essere geloso. Era come se l’inaspettata e generica vastità del sentimento del lutto, in un certo senso espropriandomene, avesse dentro di me il medesimo effetto che ha sulla terra un fiume rimpinzato, come un’oca destinata a produrre foie gras, da giorni e giorni di pioggia battente sino alla fatale esondazione liberatoria, sotto la quale annega o si inabissa tutto ciò che poco prima era vivibile e vivente. Di questa madre, di questa mia madre, compianta o anche solo mancata altrove rispetto a me, sentivo di dover rivendicare il possesso, proprio come avrebbe fatto un uomo geloso con una donna viva, e ciò finiva in buona sostanza per ridimensionare il mio specifico sentimento del lutto, anzi per risolverlo, alla maniera di un accordo dissonante, innescando appunto l’andare e venire di una specie di danza. Dopo quella metaforica piena, oltre le consuete pianure inzuppate, le scie sommerse delle solite strade e gli orizzonti arrugginiti come relitti, nell’al di là del fiume stesso, ancora gonfio ma oramai in pace come il grembo di una donna che ha appena partorito, incastonato fra tronchi dondolanti mentre qualche sterlina di luce neonata si posava appena sul pelo delle sue acque, ecco che, nel punto esatto in cui cominciava il riassorbimento di ogni cosa, una altrettanto metaforica rinascita profumava già di nuovi frutti selvatici e imprevisti, che ciondolavano tutti insieme dolcemente, un po’ come Marlon Brando in “Fronte del porto”, sulle spalle dei miei prossimi pensieri.
La donna misteriosa del lutto altrui, sia che fosse esternato mediante azioni consequenziali da parte di singoli individui o soltanto implicito nei fatti e nel corso degli avvenimenti, quella che avevo perso fin da principio, al tempo in cui la sua morte si ammantava ancora dell’imponderabilità degli eventi futuri, era quindi dal mio punto di vista ancora viva, in quanto a morire era stata solo l’altra, la madre che mi aveva partorito e allattato, che aveva avuto cura di me, che mi era stata accanto nei giochi, nei pomeriggi uggiosi che tanto mi snervavano, all’epoca dei voli iniziali e ancora terribilmente ingenui della mia fantasia inesperta, nei primi anni di scuola. Tutto questo mettere in subbuglio e in discussione ogni cosa serviva pure – nel frattempo e sottotraccia – a suggerirmi, sebbene con tutta la cedevolezza immatura di un presagio appannato, come il rilievo di una circostanza considerata esclusivamente in rapporto alla sua oggettività sia per paradosso un’astrazione autoreferenziale, fatta solo per essere mostrata, alla stregua di quanto si fa con un soprammobile prezioso, ma pure completamente inerte rispetto a ogni prospettiva di un vero approfondimento conoscitivo (come capita in realtà nei manuali di storia, nei quali di fatto ci si limita a riferire singoli eventi la cui grande quantità, plasmata in base a un generico e superficiale principio storiografico di causa-effetto sino a ottenere l’impressione conclusiva di una sequenza, viene messa a disposizione di un racconto in qualche modo verosimile), o – detto altrimenti – il risultato della somma di tutte le sue conseguenze particolari e soggettive, le quali sole, frantumandola, assumono in definitiva un rilievo tangibile.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti