L’UOMO DISINCANTATO – E mia madre era morta per sempre (2)

Sebbene di rado, mi succedeva a volte di non riuscire a prendere sonno, e non perché la consistenza dell’oscurità, alla quale io stesso contribuivo in ogni modo possibile serrando con cura la porta e le finestre della mia stanza e spegnendo tutte le luci (coprivo addirittura con un panno il quasi impercettibile alone rosso emanato dalla nuovissima radiosveglia a cartellini che mi aveva regalato una cugina di mio padre e che tenevo sul comodino), lasciasse a desiderare, ma in quanto la mia voglia di dormire, troppo caparbia per non essere in fondo impregnata d’ansia, scaturiva da un impasto nervoso e poco malleabile di sofferenza e di fatica che in certi casi non rispondeva più ai comandi, come la cloche di un aereo in avaria, facendomi schiantare contro il muro insuperabile dell’insonnia. In quelle occasioni mi giravo e rigiravo di continuo nel mio letto, sempre più sfinito e sempre più sveglio; e avrei voluto chiamare mia madre per dirle, mentendo, che sentivo salire i conati di vomito, che ero grave, malato sul serio, e che non sarei mai potuto guarire se lei non fosse venuta a misurarmi la febbre, a portarmi un bicchiere d’acqua fresca con l’aspirina e a darmi un bacio sulla fronte bollente. Però – e qui qualcosa dentro di me si spezzava in due – non potevo fare a meno di sapere anche con assoluta certezza che mia madre era morta e che non mi sarebbe stato di conforto neppure recarmi al cimitero per deporre un fiore sopra la sua tomba perché al camposanto, a eccezione del giorno in cui si fa il funerale al caro estinto, va solo chi, per fede religiosa o buon carattere oppure a causa del trascorrere del tempo, ormai ricorda senza più soffrire ed è capace di un tipo di devozione tranquilla e sostanzialmente indifferente: in parole povere, tutti quelli che, come si è soliti dire, si sono messi l’anima in pace.
Ciò che in quelle notti insonni e senza pace mi spingeva a muovermi in modo tanto frenetico, senza riuscire a rimanere fermo nella stessa posizione per più di una manciata di minuti, era soprattutto il pensiero del tempo che avevo trascorso senza mia madre quando lei era ancora con me, viva. Me ne facevo una colpa, di volta in volta diversamente rannicchiato sul letto ma sempre nella morsa di un’identica angustia feroce, e non smettevo di scavare nella mia memoria col tipico sadomasochismo dei penitenti per enumerare e rivivere le occasioni in cui avevo preferito fare altro piuttosto che stare insieme a lei: che cieco sperpero di dolcissime opportunità, ormai irrecuperabili perché lei era morta! Ai pezzi di vita reale che avevo vissuto con mia madre, e che dunque potevo ritrovare nei ricordi di quanto noi due avevamo effettivamente condiviso, se ne associavano allora altri, dedotti invece da una vita potenziale, costituita dai soli vuoti e dalle crudeli omissioni che la memoria, piegata dai furori dell’esame di coscienza, mi restituiva nella forma del catalogo spietato e minuzioso delle scelte alternative a quella di godere della sua presenza che avevo fatte nel corso degli anni; cosicché se mia madre era morta una volta per tutte nella sua vita, continuava invece a morire all’infinito nella mia ogni volta che, durante una di quelle notti in cui l’insonnia spadroneggiava, a quell’elenco si aggiungeva un’altra voce.
Ciò che ancora non potevo sapere era il fatto che proprio da questo pur dolorosissimo straripamento del mio dolore dal suo alveo naturale, che era quello del rimpianto e dei ricordi, in direzione di una zona piuttosto nebulosa e ancora quasi completamente inesplorata del mio mondo interiore nella quale la vita vera poteva senza difficoltà diventare un’ipotesi e la realtà oggettiva era dal canto suo un paesaggio impressionista sempre meno referenziale e vincolante, il disincanto, agendo sottotraccia e manipolando all’origine il mio, in fin dei conti comprensibilmente illogico, rammarico per tutte le volte in cui avevo preferito qualsiasi altra cosa alla compagnia di mia madre sino a rendere il pensiero di queste occasioni perdute funzionale a mettere in moto dentro di me un processo di elaborazione del lutto dalle caratteristiche – come avrò modo di spiegare – senza dubbio imprevedibili, avrebbe tratto lo spunto per emergere, credo per la prima volta nella pienezza di un non vago nitore, quale condizione eterodossa, e mia personale, nell’attraversamento dell’esistenza.
Il primo passo in quella direzione l’avevo compiuto nel momento in cui, a fronte della flagellazione morale del rimpianto per non aver condiviso più tempo con mia madre, rimpianto che, come ho detto, funestava senza concedermi tregua tutte le notti di veglia forzata, il mio sonno si era fatto invece a poco a poco sempre meno grave e caliginoso, lasciandosi andare a una riposante vaporosità dalla quale anche i sogni avevano ripreso a trapelare con le loro favole volteggianti. E come da sveglio mi colpevolizzavo accanitamente per aver vissuto del tempo lontano da mia madre, durante il riposo la sognavo invece a sua volta troppo spesso distante da me, in circostanze che di fatto non potevo conoscere e che, pure, i miei sogni evocavano ogni volta in un clima contrastato, ma mai ingannevole, di rarefatta precisione; e tutto ciò finiva sempre per essere imbevuto da una pulsione non violenta di fastidio e di risentimento verso di lei, tramite la quale evidentemente il mio inconscio, rendendo mia madre responsabile nei miei confronti di una colpa speculare a quella che attribuivo a me nei suoi, mi risarciva dei sensi di colpa coi quali, nelle notti d’insonnia, mi fustigava invece la coscienza. Ogni evoluzione implica un conflitto e, d’altra parte, non ci può essere un conflitto senza che ci sia anche vita: così, se mia madre era indiscutibilmente morta, seppellita per sempre, rispetto alla verità dei miei molti ricordi e ai tanti scrupoli delle mie veglie, in quei miei sogni invece, nei quali potevo ancora colpevolizzarla, e quindi indagarla in merito alle innumerevoli ipotesi circa i molti aspetti della sua vita che non ero in grado di conoscere direttamente in quanto accaduti lontano e a prescindere da me, lei era in un certo senso, se non proprio viva, quanto meno rimasta in sospeso, e, più che davvero morta, irrimediabilmente distanziata.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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