L’UOMO DISINCANTATO – E mia madre era morta per sempre (3)

Quel timido cambiamento di indirizzo impresso in modo tutto sommato abbastanza marginale al mio punto di vista covava invece in sé una profondissima trasformazione, soprattutto in prospettiva, poiché quegli azzardi notturni dell’inconscio dovevano di lì a poco affiorare dal mare magnum di una materia ingestibile e riservata esclusivamente alla pura libertà delle oscure ragioni dei sogni per offrirsi in una forma ponderabile dopo il risveglio, partecipando così a pieno titolo della natura dei pensieri che sin dal mattino si susseguivano inesausti nella mia mente, all’occorrenza assillando o deliziando il corso delle mie giornate, fino a diventare al pari di quelli motori di sentimenti consapevoli e arbitri di riflessioni coscienti. Nel momento poi in cui mia madre aveva cessato anche nella veglia di essere per me solo e semplicemente una morta da piangere, evocatrice di ricordi e di rimorsi tutti allo stesso modo rannicchiati nel grembo di un lutto filiale, per prendere le distanze da quell’identità tanto esclusiva e quindi complicarsi in qualcosa di più sfuggente e di molto diverso che sino ad allora, dato per acquisito il presupposto che il punto di vista del figlio – al quale l’evento della sua morte mi aveva indotto ad attribuire un credito addirittura maggiore – fosse l’unico che io potessi definitivamente assumere rispetto a lei, non avevo mai preso in considerazione, a poco a poco anche il dolore per la sua scomparsa, pur senza davvero scemare, si era attutito, come una nota suonata con la sordina. Il pensiero di mia madre aveva travalicato quei limiti che gli occhi del figlio, innocenti ma tiranni e masochisti come in fondo tutto ciò che ha a che fare con l’amore, le avevano imposto, rivelandomi così l’oggettività irrefutabile di immense zone d’ombra, che andavano dalla generica autonomia della sua esistenza rispetto alla mia ai tanti, specifici aspetti della sua vita che non conoscevo, dai suoi pensieri più intimi a tutto ciò che lei in definitiva non avrebbe mai potuto ritenere attinente al suo ruolo di madre. E questo non poteva non spegnere in me almeno in parte il sentimento dominante della sua morte; perché la voglia di indagare, di immaginare, di azzardare l’esercizio dell’induzione e addirittura del sospetto vero e proprio intorno a tutta quella parte della sua vita che era appartenuta alla donna e non alla madre, aveva bisogno di fare affidamento su una mondanità riconquistata, di rivitalizzare una zona franca nella quale il lutto potesse istintivamente cedere il passo ancora una volta alla leggerezza di un tempo ordinario.
La prima esperienza tangibile di questo nuovo stato di cose, destinato a servire da palestra per tutto il disincanto a venire, aveva avuto origine, com’era prevedibile, poiché gli esordi delle migliori guarigioni, così come quelli delle peggiori malattie, sono sempre subdoli, da un evento a prima vista di scarsissima importanza. Una volta infatti, mentre chiacchierava con me in salotto del più e del meno, mia nonna, che mi voleva molto bene e che quindi, per spiare i progressi del mio umore (qualora ve ne fossero stati), passava per casa nostra quasi tutti i giorni portando un vassoio di pasticcini, sempre gli stessi, quelli con la crema e le mandorle, che tra l’altro piacevano più a lei che a me, mi aveva detto sorridendo con le lacrime negli occhi: “Sai che questi erano i pasticcini preferiti dalla tua povera mamma? Ah, se avesse potuto si sarebbe nutrita solo con questi!”
Io però ricordavo benissimo che un giorno in pasticceria mia madre mi aveva impedito di mangiare una terza pasta alla crema spiegandomi che lei da bambina ne aveva mangiate troppe, facendo indigestione, e che da quel momento della crema non era stata capace di sopportare più nemmeno l’odore. Per la prima volta, mentre nel frattempo mia nonna continuava a pronunciare parole inghiottite una dopo l’altra dal grigio destino dei rumori di fondo, avevo percepito una vera discordanza, simile a uno sbuffo di vento che all’improvviso sfogli e separi avanti e indietro le pagine di un libro aperto, tra la donna morta che avevo amata e che piangevo come madre e l’altra, quella velata e misteriosa che invece le aleggiava intorno e che, viva per vie traverse, contraddicendola , mi provocava.
Inizialmente, però, a causa dell’estrema fragilità emotiva nella quale mio malgrado ancora annaspavo, non ero riuscito a trattenere quel pensiero nella mia mente abbastanza a lungo per farne l’oggetto compiuto di un ragionamento, trasportandolo cioè da quella zona della coscienza in cui i concetti, quasi fluttuando inerti, condividono ancora la natura delle suggestioni, all’ambito più concreto del possesso, intimo e silenzioso, di un vero argomento. Questo aveva coinciso da una parte col ritorno a galla delle chiacchiere di mia nonna che, abbandonata la consistenza del brusio, si erano riavvicinate a me in modo nitido, un po’ come accade ai volti e agli oggetti quando una persona miope, dopo essersi svegliata al mattino, ricomincia a guardarli finalmente attraverso i suoi occhiali, e dall’altra col ripristino assoluto del dolore del lutto, simile a quell’acqua stagnante che, smossa solo per qualche secondo dal passaggio di un gerride pattinatore, torni subito poi, come se nulla fosse accaduto, alla consueta immobilità paludosa, quale unico strumento appropriato per avere accesso al pensiero – ma dovrei dire in questo caso, con maggior precisione, nuovamente al ricordo – di mia madre.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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