Le differenze con quanto mi era accaduto al tempo della morte di mia madre erano palpabili e confermavano in modo inequivocabile un cambiamento radicale nella mia considerazione del dolore e della perdita che proprio quel primo, gravissimo lutto, balenato nella mia vita come un fulmine in un cielo all’apparenza ancora completamente sereno, aveva prima suscitato e poi stabilito dentro di me in via definitiva attraverso un processo molto simile a una dieta, in cui la mia sofferenza era stata sottratta alla normale, succulenta metafisica delle passioni e trasferita a furia di digiuni emotivi sin sulle soglie asciutte del mistero ragionevole del disincanto.
C’è da dire che, non appena ero stato posto di fronte all’inevitabilità del fatto di dover vivere senza sconti il lutto per la morte di mia madre, le cose per me si erano subito complicate parecchio, e avevano finito con l’avvilupparsi in modo intricatissimo, un po’ come capita certe volte ai capelli troppo lunghi e spazzolati male, quando l’unico modo sensato di risolvere il problema diventa infine il taglio netto e, non senza qualche scompenso per la necessità di fare l’abitudine in fretta a una nuova immagine di sé, il conseguente adeguamento del resto della capigliatura alla sventura dell’unico ciuffo infortunato. Nel momento in cui, infatti, ero stato costretto a fare i conti col dolore solido e invulnerabile dell’assoluta certezza che non l’avrei più rivista, fossi pure vissuto altri mille anni, la mia voglia di esistenza aveva seriamente traballato. Ogni luogo o circostanza che fossi chiamato ad attraversare mi si presentava prima di tutto ‘senza mia madre’. Questa consapevolezza ne diveniva subito, cioè, l’attributo principale cosicché la mia vita si polverizzava dentro di me in un prima e in un dopo di lei, senza eccezioni, e tutto ciò che era stato prima si amalgamava, grazie ai ricordi, a quel che veniva dopo trasformandolo fatalmente in ‘ciò che sarebbe potuto accadere’: in altre parole, ero fermo non già nel tempo ma rispetto a esso; perché la memoria, che per definizione, in quanto luogo delle cose compiute, non può contenere né l’oggettività fattuale del presente né l’assoluta potenzialità del sentimento del futuro, nel mio caso non solo li influenzava entrambi, come avviene sempre nel senso di un’armonizzazione avente come unico fine quello di mantenere il carattere unitario di una persona nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, ma li annetteva per intero alla propria natura spirituale, facendone pure ipotesi delle quali mia madre era ancora in tutto e per tutto partecipe. Così lei non solo risorgeva pur rimanendo morta ma addirittura si moltiplicava in relazione alle singole occasioni grazie alla fresca vitalità dei miei ricordi. Ed ecco allora che durante un acquazzone improvviso me la ritrovavo accanto, trafelata, dopo che aveva fatto una corsa per raggiungermi e portarmi l’ombrello, proprio come l’estate prima che morisse, durante le vacanze, mentre un sole mai davvero sparito filtrava attraverso gli aghi di pioggia riverberandosi di taglio sulla luminosità del suo sorriso; ed ecco ancora che, quando facevo i compiti in camera mia, mi aspettavo di vederla entrare come sempre col suo passo soffice nella mia stanza, non appena la luce cominciava a scarseggiare, per aprire le tende passandomi una mano tra i capelli prima di uscire in silenzio; ed ecco che, addirittura, mi preparavo la merenda da solo ma ripetendo i suoi stessi movimenti, come se per davvero me la stesse preparando lei, davanti a me, che intanto smaniavo affamato. Ma tutto ciò – e a questo punto il mio dolore raddoppiava giacché l’essenza dei ricordi si lasciava immortalare, alla maniera di una radiografia, dai raggi vuoti del presente – esisteva soltanto dentro di me, perché di fuori invece, nella realtà, mia madre era morta, punto e basta.
Ambivo con impazienza, alla fine di ogni giornata, a quella sensazione cortese di pesantezza con la quale i colori grassi del crepuscolo impacchettavano i miei occhi; e d’altro canto dalle notti, che, comunque fossero, stirate e grigie e umide d’inverno oppure rarefatte in estate, vessate tra cauti splendori e stordita calura, mi sforzavo di prolungare il più possibile a furia di riassopimenti inermi, ogni volta un po’ più brevi ed effimeri, perché soltanto non facendo nulla riuscivo a illudermi di essere in salvo e solo se lasciavo in sospeso la mia vita potevo immaginare di trovarmi al riparo dal dolore, pretendevo sempre un sonno adeguato, profondo e quieto a ogni costo, capace d’inghiottire completamente nei suoi abissi assoluti d’oblio quei maledetti melodrammi combinatori – i sogni – messi in scena mio malgrado dall’inconscio, in modo da negarne al consapevole chiarore del risveglio anche il più tenue brandello sotto la solita forma disturbante del ricordo.
Verso sera, illudendomi così di rendere più rapida la discesa confortevole delle ombre notturne, mi mettevo davanti alla finestra della mia camera a guardare il paesaggio che si acquerellava scomponendosi in aloni e velature di diversa profondità, mentre il grande orologio a pendolo nella sala accanto oltrepassava coi suoi rintocchi l’immane spessore del silenzio circostante per venirmi a cercare, portandomene il suono trasformato dalla distanza nel crepitio di una cartilagine infiammata. Seguivo l’intera scala di grigi scorrere sempre più liquida e buia sopra la pallida consistenza delle pareti screpolate dell’edificio che avevo di fronte per poi assorbirle con uno slancio repentino, dopo essere diventata un’enorme pozza specchiante d’inchiostro nero, fino ai bordi delle finestre tutte uguali, là dove la luce residua, riflettendosi in essa, modellava dei tremuli rigonfiamenti, dei grandi goccioloni oscuri prossimi a debordare. A quel punto alcune di quelle finestre, che mi facevano pensare a degli occhi chiusi sollecitati all’improvviso a spalancarsi da un’incombente sensazione di pericolo, s’illuminavano; e cominciava così per me la fase più dolorosa della sera: quella in cui la luce elettrica prolungava quella del giorno e l’acquerello di prima si convertiva a una lucidità estrema e innaturale, ricoprendosi di grosse macchie che mi inducevano il pensiero di un sintomo morboso, di una degenerazione esantematica dei colori. Eppure restavo lì a guardare, immobile, cocciuto come può esserlo soltanto un bambino che ha appena perso per sempre sua madre, avendo come unico desiderio davvero irrinunciabile quello di poter accogliere felice il tanto sospirato buio nel momento in cui, come sempre, esso fosse arrivato dopo aver spento l’estremo bagliore, l’ultimo riflesso di luce sul bordo obliquo del grande specchio dell’armadio della mia stanza, che a me pareva l’ala gialla e bluastra di una libellula.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti