La voce rabbiosa di mia nonna che, strillando come un’ossessa, mi aveva intimato di andarmene fuori dai piedi, trattandomi come un qualunque seccatore di passaggio, un ragazzino ficcanaso, una piccola apparizione casuale del tutto estranea alla sua vita (d’altro canto perché mai avrebbe dovuto fare altrimenti giacché in effetti lo ero, non essendo possibile che lei mi considerasse suo nipote, cioè il figlio di sua figlia, la stessa che, ancora bambina, stava giocando appena pochi istanti prima nel prato della villa?), e la formula di rito, pronunciata col tipico tono d’irreprensibile, categorica insolenza che il ceto medio considera una forma di legittima scortesia sempre e del tutto compatibile con la buona educazione, tramite la quale mia madre mi aveva liquidato, avevano tagliato la mia vita in due tronconi così come dei tiranti in ferro tesi ad altezza d’uomo lungo un sentiero avrebbero fatto con uno sfortunato e ignaro motociclista lanciato a tutta velocità. Il tempo, e quindi la cognizione della vita intera, erano stati spezzati e divaricati a forza dalla brutale consapevolezza che nulla è realmente come sembra, che niente è vero e che, di conseguenza, tutto può diventare verosimile, che addirittura gli affetti ritenuti più sacri (mentre non sono altro che naturali), quelli sui quali ciascuno fonda le sue incaute certezze, plasma i suoi vanagloriosi punti di vista e lima la credibilità delle sue aspettative, una volta ammessa la relatività del tempo – che io avevo sperimentato soffrendo tutta la drammaticità ucronica della mia visione – nel quale essi accadono anonimi, in modo fortunoso e tutt’altro che inderogabile, né più e né meno che come qualsiasi altra banalissima vicenda umana, diventano relativi a loro volta, perdono di sostanza, di unicità, di squisitezza, perfino di amore. Tutto può cambiare, così come tutto può essere scambiato: altrove nel tempo (poco importa se solo nell’ipotesi di una fantasia visionaria come la mia), le due donne che forse avevo amato di più nella vita – mia madre e mia nonna – si erano comportate con me in modo odioso, sino al punto di cacciarmi via malamente da quella specie di filmino in 8 millimetri. Erano differenti – è vero – tuttavia senza essere diverse. Io mi ero sentito piccolo, insignificante, rimbalzato come una pallina da tennis spelacchiata e mezza sgonfia tra il piatto in budello di una vecchia racchetta e il muro, durante uno di quegli allenamenti da nerd di periferia che non servono a niente e non interessano nessuno. Per un po’ avevo evitato di pensarci ma era stato inutile: ero minuscolo e perduto, una particella elementare indivisibile come la sua solitudine e alla quale il tempo non forniva certezze che non fossero apparenti, ovvero illusioni, inganni, forse cinema, nella più lusinghiera delle ipotesi. Il tempo non passa per davvero, e questo, se si vuole perlomeno rimanere seri, dovrebbe cancellare anche il conforto poetico della malinconia, dei suggestivi struggimenti estetici legati alla memoria; il tempo non trascorre ma si limita a dislocarci in qualche parte di spazio e quando poi nel luogo dove siamo, saremo o siamo stati non c’è più niente di interessante da fare lo inghiotte o lo sputa, a sua discrezione, in un punto qualsiasi dell’eternità.
Ricordo che da bambino non mi faceva paura tanto il buio quanto invece una brutta luce. In un certo senso guardavo alla realtà assumendo il punto di vista di un fotografo: perché se dopotutto il buio non è che una materia inerte, qualcosa che si può sempre illuminare, gestire, costringere a rivelare per gradi o subito tutta per intero quella parte di mondo in esso contenuta, che è possibile sagomare attraverso l’illuminazione artificiale in chiari di luna, aurore, volute, curve logaritmiche e fantasmi, una brutta luce è invece come il malanno incurabile di un luogo, una severa infezione virale in atto che inizia col contagiare in modo subdolo lo spazio astratto per estendersi poi, alla maniera delle metastasi, alla carne viva dell’intero paesaggio. Essa viene magari rallentata con estenuanti interventi palliativi – effetti ottici placebo – i quali a volte mitigano, altre addirittura arrivano a correggere, in parte e temporaneamente, le conseguenze della malattia, ma alla fine l’unica relazione possibile tra la psicologia dello sguardo e lo spirito del luogo finisce comunque per essere la morte. Il buio è esterno alla vita, è l’involucro di un giocattolo nuovo che aspetta solo di essere scartato; una brutta luce è invece quello stesso giocattolo senza più speranze, contaminato per sempre dalla noia mortale d’essere passato di moda.
Ebbene nell’intuizione, sebbene al momento nebulosa a causa della mia giovanissima età, ma proprio per questo ancora più straziante, che il tempo non era nulla di diverso dal moto del dislocamento casuale nello spazio di un fenomeno episodico – nella fattispecie di me stesso – al quale sarebbe potuto capitare benissimo di non succedere affatto oppure di accadere in modo del tutto differente e in circostanze in contraddizione se non addirittura completamente opposte rispetto alle attuali; e che quindi la mia vita non era poi davvero tale – non era cioè né “mia” né in assoluto proprio “quella” determinata vita – ma solo l’impressione illusoria di un punto di vista, necessario e relativo, soggettivamente attribuito al luogo dell’empirica dislocazione di un evento riconosciuto presente nel tempo e nello spazio, ogni cosa, abbagliandomi incandescente ma senza mancare dell’attendibilità di una freddezza rigorosa – tipo la messa in scena di un’esplosione catastrofica ripresa in three strip IB dye-transfer color (come “Il mago di Oz”) e poi proiettata in uno di quei bei cinema mediamente eleganti dei primi anni ’40 – aveva perso la speranza contenuta nella grassa densità del proprio buio indefinito e si era vista rappresentare invece dai tagli banali e dagli aloni meschini di una luce stupida, e molto – davvero molto – brutta.
Così il disincanto, mentre traeva forza e risalto da un apparente processo di affinamento imposto dai pregiudizi istintivi (come li avrebbe definiti David Hume) della mia ottusa soggettività che, allo stesso modo di qualsiasi altra non meno miserabile, assolutizzava il proprio punto di vista mediante il consueto schema dell’evoluzione progressiva o regressiva di ogni cosa, si stava a poco a poco rivelando nella spiazzante novità di un nesso ben più profondo e decisivo fra il tempo e la vita che non riguardava tanto il modesto rilievo degli aspetti di solito enfatizzati dalle facili retoriche sentimentali della vita intesa come semplice tempo che trascorre – tra l’altro mai prive di analogie patetiche e piuttosto sdrucite con la successione delle stagioni che, esattamente come quella delle ore del giorno, non ha affatto uno sviluppo crescente e vettoriale bensì un corso liturgico e circolare – quanto invece col rapporto tra il tempo, considerato nella sua autentica funzione di motore della dislocazione casuale della vita nello spazio, e la vita stessa. I fondamenti del disincanto, ovvero quelle radici che erano già destinate a espandersi nel fondo della mia coscienza per poi man mano crescere e ramificarsi lasciando affiorare nel corso degli anni la pianta stabile e sempre più robusta del mio personale sentimento della vita umana sino a farmela ritenere un evento privo di autentica drammaticità ma nondimeno ragionevolmente indesiderabile, al di là del folclore romantico legato, tanto nell’estasi che nello sconforto, alla natura effimera delle sue episodiche fioriture accidentali (ovvero gli avvenimenti e le circostanze che per caso ci è dato di attraversare), sempre scandite dalla rincorsa, trita e ritrita, del solito amore alla solita morte e viceversa, e intorno alle quali tutti, a cominciare dagli artisti, paiono affaccendarsi nella gestione melodrammatica della loro più o meno romanzesca valle di lacrime, erano in rapporto col fatto ineludibile che, se il tempo è in effetti la dislocazione nello spazio di un avvenimento qualunque, ogni vita può benissimo essere vissuta al posto di qualsiasi altra; e che quindi nessuna ha un valore davvero unico e a sé stante, perché lo stesso individuo per il quale qui e oggi si è disposti a uccidere, sempre oggi, ma appena un poco più in là, diventerebbe solo un perfetto sconosciuto quando non addirittura un nemico da assassinare.
In realtà nessuno saprebbe dire davvero perché è arrivato a essere se stesso o, più precisamente, chi presume di essere, né per quale motivo è giunto alla propria visione del mondo, ai propri gusti e valori, alla persona che detesta o della quale è invece innamorato, all’indole che lo caratterizza e al lavoro che ha scelto; ma più o meno tutti vivono a partire dalla presa di coscienza che le cose stiano così come in effetti stanno perché tutte le premesse erano già bell’e fatte, come la confezione, a volte decisamente elegante, altre volte almeno decorosa, altre ancora soltanto miserevole e realizzata in serie, di un pacco dono. Quasi tutti si fermano alle motivazioni fiorite intorno al ‘come succedono le cose’ e le scambiano con le ragioni ultime che, però, potrebbero essere indagate solo a partire dal ‘perché le cose succedono’ (dato che tra ragioni e motivazioni c’è una grande differenza). Un uomo disincantato invece, che guarda tutto attraverso la lente del suo microscopio aristotelico usando un’ottica eccentrica e quasi sperimentale di assoluta ibridazione tra la logica e il sentimento, è spinto dal disincanto stesso a considerare il tempo non come divenire ma quale motore del casuale dislocamento della sua vita, in quanto singolo fatto tra miliardi di altri equivalenti, presso il suo qui e nel suo ora, e di ciò sperimenta a fondo, e tuttavia con sangue freddo, senza nulla concedere mai all’ipertrofia delle derive romantiche dello spirito tragico, l’assenza di ragioni. Ma se è impossibile individuare una ragione sufficiente per cui un’esistenza ha preso un corso determinato, giacché avrebbe potuto benissimo andare da tutt’altra parte e in ben altro modo; se ogni individuo non solo influisce appena in superficie sulle situazioni, che dipendono invece quasi del tutto da circostanze incontrollabili, spesso dall’umore, dalle fortune, dalla vita e dalla morte di altra gente con la quale solo per caso e in un dato momento è accaduto d’imbattersi, ma deve perfino accettare l’idea che, nel tempo, la sua vita avrebbe potuto essere in parte o del tutto un’altra, e con pari verosimiglianza e fondatezza; se addirittura altrove nel tempo colei che qui è madre avrebbe potuto essere ugualmente moglie, amante o emerita sconosciuta (o magari anche nascere maschio!) per chi qui adesso è suo figlio; allora la propria vita non è forse un evento da abitare senza troppa enfasi, una contingenza in cui alla fine tutto ciò che viene meno decade solo per insufficienza di prove, così come un’accusa fantasiosa in tribunale, perché se in virtù del caso ogni vita può – e avrebbe potuto – essere qualsiasi altra, gli avvenimenti che essa finisce poi per contenere sono qualcosa in cui convivono la realtà e la messa in scena? E se tutto questo è vero, che senso ha poi ridursi a bamboleggiare considerando in modo tanto drammatico il tempo come il divenire che consuma eventi ragionevolmente adatti al massimo a una composta nostalgia? La verità è che le cose finiscono perché, essendo nel tempo ogni vita tale e quale essa è per puro caso, se durassero per sempre diventerebbero soltanto dei brutti paradossi, dei tumori deificati da un’estenuante devozione cadaverica.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti