L’UOMO DISINCANTATO – E mia madre era morta per sempre (12)

Mentre echeggiava in me in un modo non troppo diverso da un suono sconosciuto alle abitudini dell’orecchio e diffuso da uno strumento musicale assolutamente misterioso, come se si  trattasse – per dire – della prima vibrazione del sistro appena giunto tra le mani di Iside, il disincanto mi stava mostrando non solo che il tempo non era altro che la dislocazione casuale nello spazio della mia esistenza ma che quest’ultima, a sua volta, era il prodotto del rapporto tra la velocità potenziale ⁿ del tempo stesso e quella di accrescimento reale ª dell’energia × necessaria allo spazio ʸ per sostenerla in modo sufficiente a differire il collasso entropico, cioè la mia morte. Tutt’altro che una cosa terribile, quindi, ma un rincorrersi di distanze tra forze in cerca d’armonia – la più semplice e compiuta tra quelle possibili – alla quale, per definizione, l’unisono assoluto non può appartenere se non, appunto, come noia mortale. E in che maniera potrebbe mai conciliarsi la complessità imprevedibile di un simile moto incessante e vertiginoso con l’amore nelle sue varie forme – per la patria, per un’amicizia, per una donna o un uomo, per la famiglia, i genitori, i figli, e in generale per la singola, specifica vita che ci si trova a attraversare e ad abitare – ma inteso sempre come volontà di stasi, come un morboso, maniacale attaccamento che, alimentando il disordinato sentimentalismo delle disillusioni invece di abbandonarsi alla geometricità del disincanto, trasforma in un patetico divenire quanto in realtà non è altro che movimento?*
* Anni dopo, proseguendo con sempre maggiore consapevolezza il mio itinerario dietro la lunga scia di questi pensieri e grazie ad alcuni preziosi spunti di riflessione che nel frattempo mi erano venuti dalla pratica del tennis, avrei prima inteso e poi chiarito a me stesso come, in virtù di un motivo analogo, anche quello di uguaglianza tra gli uomini – pilastro di tante dottrine filosofiche e politiche – fosse in realtà un concetto banale, antievolutivo e profondamente ingannevole. Esso è infatti la dimostrazione che ogni ideologia, per il fatto stesso di essere tale, viene contraddetta dalla natura, dalla casualità e quindi, in definitiva, dall’oggettività dei dati di fatto. Il concetto di uguaglianza rimanda a una cultura dell’immobilità, alla deificazione del mondo in forma di palude. L’uguaglianza esprime stabilità di fronte al vorticoso can-can danzato dalla vita sul caso e indica una giustizia acquitrinosa laddove la biologia è invece una feroce tempesta. E paradossalmente, in questo suo sforzo di farsi vita contro la vita, essa sta per intero dalla parte della morte, della quale è la metafora perfetta.
“L’universo somiglia un po’ a uno squalo che si sposta anche durante il sonno perché manca di vescica natatoria – mi avrebbe detto molti anni dopo Lord Finnegan a Wimbledon – e la maggior parte degli esseri umani sono invece come delle remore, che gli si attaccano addosso con la loro ventosa per farsi trasportare, cullandosi nell’illusione dell’immobilità.”
Il disincanto mi separava – definendolo – dal lato oscuro dell’amore, dal suo usuale produrre attaccamenti che diventano progetti, fondamenta e cattedrali nelle quali ciascuno infine adora se stesso, prega per la propria debolezza e a volte risponde anche miracolosamente ai propri bisogni; mentre però tutto il resto non smette ancora e sempre di cambiare, partire, lasciare, mentire, arrabbiarsi, tradire, ammalarsi e morire.
Quella sera stessa ero andato a dormire con la sensazione di aver ripiegato il mio lutto così come si fa con le belle lenzuola dei corredi delle spose, quelle di grande pregio, che poi in concreto nessuno utilizza mai e che restano vita natural durante al loro posto, nelle cassapanche o negli armadi, a disposizione per ogni evenienza e in attesa di sempre differibili e perennemente indeterminate occasioni migliori; lenzuola molto simili quindi a un principio morale o al perdurare nostalgico e carezzevole, anche in età matura, dell’eco dell’affetto per un amico d’infanzia, nonostante se ne ignori da tempo immemorabile la sorte; lenzuola a poco a poco smaterializzate in un rito, convertite nel feticcio di una tradizione e destinate il più delle volte a passare di madre in figlia praticamente intatte, ogni volta un po’ più desuete nello stile rispetto ai tempi ma comunque capaci di non andare mai fuori moda fino in fondo; lenzuola fragranti di lavanda o di fiore di cotone, che a un primo contatto con l’esterno, dopo tutto il tempo passato al chiuso delle loro custodie, profumano l’aria prima con un intenso aroma di muschio e che poi, man mano che vengono spiegate, sprigionano a cascata sentori di fresia, menta acquatica e legno di cedro, finché ogni cosa – la camera, la casa, il paesaggio e addirittura la luce – non può che dare l’impressione di condividere, anche se solo per pochi minuti, lo stesso bizzarro stato di galleggiamento gioioso e modesto.
Io quindi piangevo ancora mia madre ma lo facevo con una lentezza, dovuta alla distanza, che asciugava le mie lacrime prima ancora che cadessero. Provavo un dolore simile in tutto alla visione della luce delle stelle che, senza avere alcun rapporto con le passioni degli uomini, evoca tuttavia in essi da sempre ogni specie di sentimentalismo quando non addirittura le istrioniche fandonie dell’astrologia. La luce ha una velocità di 300.000 km al secondo e quindi se una stella dista mille anni luce dalla terra essa è visibile così com’era mille anni fa: ciò significa che nel cielo ci sono stelle che si accendono e si spengono e che noi non vediamo ancora, o che continuiamo a vedere anche se di fatto non ci sono più. Dopo aver incontrato mia madre, attraverso quella visione, in un momento della sua vita tanto lontano da me e dalla mia ed essermi spinto fino al punto di dedurre, sebbene in una modalità ancora infantile e sentimentale, priva di fondamenti razionali, che la vita stessa non fosse altro che un evento accidentale, casualmente intercambiabile, nel tempo e nello spazio, con qualsiasi altro e addirittura col suo esatto contrario (e, perché no, considerando l’universo un pluriverso, relativamente parallelo agli uni e all’altro), anche la strana gelosia iniziale per il tempo effettivo che lei aveva trascorso senza di me e il diffondersi pruriginoso dei miei sospetti intorno ai segreti, veri o immaginari, della sua vita – come i fidanzati ai quali poteva essersi legata prima di mio padre o come l’amante che di sicuro non le sarebbe stato difficile incontrare durante i lunghi pomeriggi che, spesso fino a sera inoltrata, trascorreva nella parrocchia cattolica del nostro quartiere, impegnata ufficialmente in opere di carità insieme alle altre Dame di San Vincenzo come lei – erano venuti meno in quanto ridimensionati rapidamente in epifenomeni senza più importanza.
Dentro di me la consueta percezione soggettiva del tempo in quanto divenire e quale unità di misura della sua velocità stava evaporando in fretta; ciò accadeva però con la stessa meccanica indifferenza che contraddistingue l’appassimento della luminosità delle giornate man mano che queste si avvicinano al solstizio d’inverno, quando cioè l’oscurità ne raccoglie ogni sprazzo residuo come fosse una fioritura tardiva per farne, più o meno sempre intorno all’ora nona, delle piccole ghirlande di barbagli, subito essiccate dal precipitoso evolversi in notte di una fin troppo ripida sera. Riconoscevo ormai al tempo un’oggettività tortuosa e ciò nonostante certa, mediata dal suo passaggio dall’ambito del divenire delle cose a quello della loro dislocazione nello spazio e dalla sua metamorfosi in unità di misura della distanza anziché, com’era sempre stato, della velocità. Mi pareva che tutto, accettando il rischio e il costo di perdersi, stesse finalmente rallentando e che quanto mi aveva minacciato con la prospettiva di un’infinita inquietudine trovasse ora la scappatoia comprensiva di una pace sufficiente e dalla quiete finita.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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