L’UOMO DISINCANTATO – E mia madre era morta per sempre (11)

A questo punto immagino possa essere più chiaro che cosa – vale a dire la carezzevole e frivola leggerezza propria della teatralità anglicana – mancasse dal mio punto di vista, e per giunta con sgradevole disinvoltura, al gesto di pudore tutto cattolico – quindi magari finto ma ben lontano dall’essere teatrale – compiuto dalla bambina che avevo di fronte e che, non senza coltivare imperterrita nel corso degli anni a venire questa sua pudicizia ai miei occhi stilisticamente difettosa, sarebbe infine diventata mia madre, pur essendolo di fatto non solo già stata, dato che non stavo vivendo per davvero quanto vedevo, ma, a giudicare dal lutto che si allungava sempre in fondo ai miei pensieri come un sentiero solitario inciso in mezzo a due ali selvatiche di campagna avvizzita sotto il peso di uno strano sole da apparizione mariana, perfettamente rotondo e dardeggiante, anche per un periodo di tempo piuttosto breve. Sta di fatto che, in quel preciso momento, avevo sentito il mio corpo trasformarsi nell’attrazione principale di uno spaventoso Luna Park del futuro, una specie di anatomica Free Fall Tower sulla quale l’insieme impulsivo di sentimenti tanto diversi tra di loro, raggomitolati al centro esatto del mio stomaco fino a darmi l’impressione, gambette ciondolanti comprese, di avere dentro un gruppo esagitato di passeggeri imbracati e confusi dall’adrenalina, stava per salire su fino a fluttuarmi in sospeso nel cervello prima di ripiombare, ingannevole, sul soffice groviglio pieno di gas degli intestini. In altre parole: credevo di essere sul punto di vomitare. Incapace di vivere se non vedendo, percepivo tutto alla maniera di un Van Gogh in fase terminale, come se un cielo pesante stesse precipitando sopra un campo di grasso grano giallo, rallentato appena – beninteso senza intenzioni misericordiose ma solo per puro estetismo apocalittico – dal moto frenetico delle ali nere dei corvi sottostanti; mi pareva che il mondo intero arrivasse lanciato a tutta velocità contro i miei occhi spalancati, nei quali la mia esistenza se ne stava rattrappita in attesa dell’impatto, simbolicamente difesa dalla sua posizione fetale. La grande finestra dietro alla bambina che, dopo essersi rassettata in quel modo spiacevole, mi guardava finalmente con calma, per quanto fosse ben lontana dal mostrare la benché minima curiosità nei miei riguardi, era diventata all’improvviso la cornice di un’altra visione: mia nonna, ringiovanita, grazie all’animarsi in una grana un po’ brulla, da filmino familiare in 8 millimetri, dei tanti ricordi che conservavo delle sue vecchie fotografie, con la stessa grazia di una mattina di sole, una di quelle che verso la fine delle estati più torride, non appena ci si sveglia, arrivano prima al naso che agli occhi, per via dell’aria fresca e ripulita in cui le lascia a galleggiare l’interminabile acquazzone della notte precedente, era apparsa accanto alla tenda, dietro al vetro, indossando un abito rossastro e il doppio filo di perle tra le quali giocava, com’era sua abitudine da sempre, con le dita della mano sinistra, che potevo scorgere lunghe e sottili, ancora neppure sfiorate dalle tristi deformazioni dall’artrite; a tratti la sua immagine, combinandosi insieme al riverbero chiaroscurale del fogliame degli alberi, allo sfavillio biancastro della ghiaia delle aiuole fiorite che circondavano ordinate l’intero perimetro della villa e a tutto quanto intrecciava il vertice dell’angolo della mia visuale con la prospettiva dello spazio riflesso dal vetro, prendeva una consistenza opaca, quasi azzurrognola, attraversata da una profondità trasparente e nostalgica. A un certo punto, però, la nonna (anche se ancora non lo era), scorgendomi oltre il cancello e immaginando che volessi attaccare discorso con sua figlia (che ancora non era mia madre), mi aveva fissato con uno sguardo per me del tutto nuovo, mai visto prima, fremente di un’ostilità inflessibile e glaciale, che aveva attraversato il vetro arrivando fino a me come una pallina da tennis colpita male col telaio della racchetta. Lei allora aveva aperto la finestra e aveva urlato: “Che vuoi? Chi sei? Vattene via!”; e mia madre, cioè la bambina, dopo essersi girata di scatto verso di lei che strillava forte, mi aveva detto ridacchiando e sempre più sottovoce mentre già rientrava velocemente in casa: “I miei genitori non mi permettono di parlare con gli estranei, mi dispiace!”
Cos’è l’essenza del dolore? Parlo proprio del suo nucleo centrale, del nocciolo compatto che, così come succede con certa frutta, si deve scartare per forza, che non ha mai senso provare a interiorizzare perché questo significherebbe solo schiantarsi il cuore, sentire che quella cosa misteriosa e sovrumana gli esplode dentro, tipo proiettile Dum-dum, dopo averlo millimetricamente penetrato, perché un fatto simile coinciderebbe di sicuro con la morte, e quindi, dato che se ne è consapevoli, anche col suicidio. La polpa di un frutto completamente acerbo o anche soltanto non maturo si può comunque mangiare, magari a fatica, con disgusto, sminuzzandola col coltello per poterla masticare più in fretta e di conseguenza non essere costretti ad assaporarne l’acidità inclemente troppo a lungo, persino facendo espressioni buffe alla maniera dei bambini nauseati dalla pappa che viene loro propinata, ma alla fine bene o male ci si riesce quasi sempre; il nocciolo, invece, quale che sia il grado di maturazione del frutto, viene sempre gettato via: nessuna persona sana di mente penserebbe mai di agire in modo diverso, nonostante esso, tutto sommato, non sia altro che la teca nella quale è custodito il seme, ovvero ciò che sta per definizione all’origine di ogni cosa. Ebbene per me l’idea dell’essenza del dolore, il concetto del suo osso nascosto, che ne serba l’archetipo segreto, sul quale in quei momenti terribili avevo scheggiato, da imberbe ragazzino curioso colto di sorpresa da qualcosa che andava ben oltre il suo lutto, la vitrea, precaria fragilità dei miei sentimenti più promettenti, non può né mai potrà non fare i conti con lo strappo impietoso che allora, nell’agghiacciante successione, sia pure visionaria, delle parole di mia nonna giovane e di mia madre bambina, aveva lacerato ovunque, di fronte ma soprattutto dentro ai miei occhi, la credibilità stessa della vita umana. Ancora oggi, malgrado l’azione del disincanto abbia infine restituito una forma diversa, ragionevole e ordinata, a ogni cosa, non saprei darne una definizione credibile senza tornare a pensare, sopportando anche il fastidio latente delle fitte di uno sconforto ormai fossile, calcificato, abbastanza simile a quelle periodiche dolenzie delle vecchie fratture che annunciano un peggioramento delle condizioni meteorologiche, a ciò che avevo provato in quel momento.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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