L’UOMO DISINCANTATO – Il destino teatrale degli inglesi

Il differente approccio al pudore dei cattolici rispetto agli anglicani – e viceversa – si fonda sul fatto che la riforma inglese è derivata dalla contrapposizione tra la monarchia dei Tudor e una chiesa cattolica ancora magnifica e profana nella fastosa parabola del suo Rinascimento, per nulla incline a riconoscere la dissolutezza di quei costumi tanto duramente fustigati da Lutero; in un certo senso, appunto grazie alla natura di puro scontro di potere tra il re e il papa che distingue la riforma anglicana, mantenendola pertanto estranea a una vera e propria ostilità spirituale e quindi ad autentici motivi religiosi, proprio quell’estremo palpito mondano della chiesa di Roma, all’epoca ormai prossima al momento in cui avrebbe indossato il cilicio per entrare in pompa magna nella sua severa quaresima tridentina, si era trasmesso, in un ideale passaggio di testimone, alla nuova comunità di credenti in Cristo fedeli al re d’Inghilterra. La chiesa anglicana nasce in sostanza, a dispetto dello scontro che le vedeva oggettivamente opposte, come erede allo specchio – ovvero quale rappresentazione teatrale – di quella cattolica, colta proprio nel momento dello splendido crepuscolo della sua vanità cortigiana; essa si deve considerare senza dubbio la vera primadonna del cristianesimo, l’unica che riunisca in sé le frivolezze della teologia e la serietà del galateo, l’eleganza nella preghiera e la giusta moderazione nei sentimenti fraterni. In tutto ciò che è anglicano – quindi incluso il pudore – il tono della voce, il contegno complessivo, i singoli gesti, addirittura gli abiti – posti intorno al corpo con la leggerezza, al tempo stesso spirituale e mendace, di un costume di scena – sembrano realtà fatte apposta per rivestire l’anima di un personaggio nel più assoluto disinteresse per il corpo dell’interprete, rispetto al quale, recitando a dovere la loro parte nella commedia quotidiana delle solite cose, agiscono piuttosto con la solidarietà di un diversivo e il fascino malizioso di una lusinga, consentendogli cioè di muoversi liberamente e con modi allusivi in virtù dell’apparente assenza di pretese – e quindi di responsabilità – tipica di tutto ciò a cui è dato di defilarsi e di godere appieno dei privilegi delle cose marginali: esse in sostanza stanno al gioco della più spudorata fisicità del corpo, che proprio nell’assimilarle trova lo spunto per rendersi piena giustizia.
La naturale attitudine anglicana per il teatro si fonda dopotutto su una sovrapposizione complessa di strati di tanti principi diversi, comunque osmotici e trasparenti fra di loro, che alla fine, arricchita dalle prerogative di ciascuno, ottiene, come una lastra preziosa di alabastro, l’effetto di riverberare un’unica luce centrale, un nucleo incandescente che, inguainato, simile all’arte effimera che la recitazione crea come una seconda pelle intorno a quella stabile dei drammaturghi, li percorre e li dilata.
Che la chiesa anglicana si debba considerare l’erede in forma teatrale di quella cattolica più gaudente, secolarizzata e politicamente compromessa trova tra l’altro un non secondario riscontro anche nella vicende del conflitto che in seguito l’ha vista contrapporsi, addirittura fino alla guerra civile, all’affermazione del puritanesimo. Non a caso i puritani – gente austera e immune a certe seduzioni romane per via delle sue ascendenze calviniste – avevano fiutato subito la venefica fragranza che emanava dal profondo intreccio radicale in ragione del quale la chiesa di Roma e quella d’Inghilterra rimanevano segretamente abbracciate come due sorelle viziose, e non si erano quindi limitati a mettere nel medesimo calderone infernale il papa e l’arcivescovo di Canterbury ma addirittura lo stesso re. Già sotto il regno di Elisabetta, quando i toni dello scontro tra anglicani e cattolici parevano essersi molto affievoliti e all’orizzonte si profilava una sorta di compromesso fondato essenzialmente su una quieta convivenza, alcuni teologi piuttosto famosi come Perkins e Cartwright avevano iniziato a contestare in modo aspro la struttura gerarchica, fondata ancora sulle nomine episcopali, l’abbigliamento del clero e le consuetudini liturgiche della riforma anglicana, ovvero quegli aspetti dell’organizzazione ecclesiastica e del culto nei quali – non essendo stupidi – vedevano chiaramente fare capolino la versione teatrale dell’odiato modello cattolico. Quando poi alla conferenza di Hampton Court avevano chiesto a re Giacomo, subentrato nel frattempo alla defunta vergine Elisabetta e che, da attore consumato, amava comportarsi come un papa in costume da monarca assoluto, il superamento dell’assetto episcopale, questi – non essendo stupido a sua volta – aveva risposto autorizzando, come contentino, la pubblicazione di una versione puritana della Bibbia, bocciando però ogni altra riforma col motto: “No bishop, no king!” (perché le gerarchie, si sa, quando cadono, danno luogo per empatia a diffuse e incontrollabili reazioni a catena lineari) che, esattamente come il più famoso “Après moi le déluge!” di Luigi XV, sarebbe costato la testa al suo successore. Infatti con l’ascesa al trono di re Carlo, il figlio di Giacomo, la lunga contraddanza tra chiesa anglicana e cattolicesimo si era evoluta in uno scenografico e signorile minuetto, spingendosi fino al limite di un colpo di scena da puro teatro d’avanguardia – quello cioè in cui il protagonista getta la sua maschera in platea – col matrimonio tra Carlo e la principessa cattolica Enrichetta Maria di Borbone e la nomina ad arcivescovo di Canterbury del quasi cattolico William Laud, inflessibile persecutore dei puritani. A un certo punto lo scontro, divenuto ormai politicamente ingestibile, fra i teatrali cavalieri anglicani, con le loro parrucche di scena sovrabbondanti di ricci e di boccoli, e le tristi teste tonde e spelacchiate dei loro nerboruti antagonisti puritani, era sfociato nella guerra civile, e in un primo tempo, grazie a Oliver Cromwell, i secondi erano riusciti a prevalere tagliando la testa sia all’arcivescovo che al suo sovrano – a implicita dimostrazione della correttezza della congettura di re Giacomo – e trasformando poi l’irriducibile Irlanda papista in un sanguinolento mattatoio di cattolici. Ma il nemico autentico, la minaccia davvero mai persa di vista, di una spiritualità come quella puritana fondata su un’austera supremazia della vita interiore e della pubblica morale, era ancora e sempre il teatro, vera chiave del vincolo indissolubile che fin dall’inizio aveva unito la chiesa anglicana alla chiesa cattolica: Cromwell infatti, una volta nominato Lord Protettore (ovvero la maschera repubblicana di un re, perché per gli inglesi, così come per gli uomini disincantati, il teatro è sempre e comunque un destino ineluttabile), accogliendo le sollecitazioni del puritanesimo originario, quelle cioè che si erano mostrate sdegnosamente ostili al clima festaiolo e alla rigogliosa vitalità del teatro durante il regno di Elisabetta Tudor, aveva ordinato l’immediata chiusura di tutti i teatri e dei luoghi di svago. Alla fine della storia, però, Cromwell era rimasto vittima del tritacarne di un contrappasso imprevedibile e diabolicamente raffinato: l’esecuzione capitale postuma, cioè una seconda morte fittizia, a poco più di due anni dalla prima, quella vera, in forma di messinscena teatrale. Dopo la cacciata del suo fragile e arrendevole figlio Richard, che gli era succeduto senza troppa convinzione più per rispetto della volontà paterna che per desiderio personale, e una volta restaurata la monarchia degli Stuart, la sua salma, nell’anniversario della decapitazione di re Carlo (quel fatidico 30 di gennaio che la chiesa anglicana avrebbe poi dedicato alla memoria celeste del suo beneamato re, martire e santo), era stata disseppellita, decollata e quindi gettata in una fossa comune. Ma la feroce rivincita dello spirito del teatro non era ancora finita: la testa di Cromwell, infatti, maliziosa allusione al cranio dissotterrato di Yorick, il buffone della corte danese che, a sentire Shakespeare, aveva allietato l’infanzia del principe Amleto, era rimasta esposta per quasi un quarto di secolo infilzata su una picca davanti all’abbazia di Westminster, prima di essere tennisticamente rimpallata qua e là fino al 1960, alba dell’era della swinging London, che aveva visto la sua definitiva sepoltura. Del Lord Protettore, acerrimo nemico del teatro, resta ormai agli inglesi soltanto un cimelio, guarda caso il più teatrale di tutti: la maschera mortuaria.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

error: All rights reserved (c) massimocasa.it