L’UOMO DISINCANTATO – Zio Dominic come Teseo, nel labirinto, per perdere il filo.

La strada verso quei misteriosi uffici era simbolicamente ripida. Piccoli sassi, foglioline e sterpi si infilavano dentro i sandali alla francescana di zio Dominic, nonostante le spesse calze di lana, provocandogli notevoli difficoltà di deambulazione: tutto ciò che eliminava lasciava spazio infatti a qualcos’altro, un po’ come sui tram all’ora di punta, quando il numero dei passeggeri rimane pressoché costante.
Alla fine, nonostante la fatica accendesse con un quasi inesorabile brio la sua naturale svogliatezza, era riuscito a sbucare nel vertiginoso piazzale antistante uno smisurato edificio ferrigno attraversato da un grande, imperioso portale ai lati del quale stavano due giganteschi leopardi di pietra.
Mentre entrava era stato fermato da un omiciattolo megalocefalo con lo sguardo spiritato e la voce roca che, con la tipica tracotanza della divisa, gli aveva domandato a bruciapelo: “Cosa vuole? Chi cerca?”. Lo zio gli aveva subito risposto garbatamente e senza trascurare alcun particolare nonostante non fosse del tutto certo che l’uomo gli prestasse attenzione per davvero giacché guardava dritto verso di lui ma come si fa con un punto qualsiasi del vuoto e alla fine gli aveva accordato un ambiguo consenso all’accesso sospingendolo anche verso l’atrio buio con una certa malagrazia. Zio Dominic raccontava che a quel punto, mentre sentiva l’omiciattolo indirizzare a qualcun altro le stesse domande che gli aveva appena rivolto, si era trovato nel mezzo di una specie di androne scuro, attratto irresistibilmente da alcuni strani rumori che provenivano dal fondo. Avanzava titubante, rassegnato a una caduta o a uno scontro frontale con esseri viventi o cose inanimate, mentre gli sembrava di riconoscere nel brusio metallico che si diffondeva un po’ ovunque, come se avesse origine da un luogo che via via si spostava nello spazio pur rimanendo sempre a eguale distanza da lui, una specie di avvolgente cantata dodecafonica per voci umane e macchine per scrivere.
Finalmente, scorgendo uno spiraglio di luce, aveva affrettato il passo, rendendosi conto ben presto però che invece di avvicinarsi a quella fonte luminosa se ne stava piuttosto allontanando, per ripiombare in pieno nella strana oscurità che serpeggiava tentacolare come un’ameba davanti a lui e che era già calata di nuovo alle sue spalle alla maniera di un pesante sipario.
All’improvviso aveva visto diffondersi a sinistra il chiarore opaco, marmoreo, di uno scalone e aveva sentito un rumore di passi e di nuovo quel brusio metallico, però questa volta più intenso, forse a causa di un’accresciuta prossimità. Mentre saliva le scale a due a due – spedito e scattante come sa essere solo un tennista in piena forma – la punta di uno dei sandali alla francescana che aveva ai piedi si era infilato a tradimento nel bordo sporgente di un gradino facendolo cadere di peso su un ginocchio. L’urto era stato a dir poco fragoroso, il dolore certamente terribile.
A seguito di quell’inatteso incidente, tra zoppia e contenuti gemiti di maledizione, zio Dominic si era deciso ad avanzare con maggiore cautela sino al piano superiore di quell’ambiente tanto complicato e in qualche modo anche ostile. Il suono diffuso e faticoso dei passi gli giungeva sempre più da vicino senza però che gli fosse possibile localizzarne con precisione la provenienza; il brusio metallico, invece, persisteva tanto immutato nell’intensità quanto ostinatamente spoglio di una spiegazione verosimile.
Si era quindi mosso in una direzione qualunque, alla ricerca di una porta, di una stanza, di qualcuno che ponesse fine al suo vagabondaggio e al quale poter finalmente inoltrare l’insulsa domanda che teneva oramai quasi accartocciata nella mano sinistra e che, con ogni probabilità, era già completamente illeggibile. Desiderava con tutto se stesso che quello sciagurato quanto accidioso tentativo di cambiare vita – che poi per lui coincideva con un cambio di carte a poker, ovvero con un azzardo privo di conseguenze prevedibili e finalizzate a un risultato specifico che non fossero un generico colpo di fortuna o la scappatoia di un bluff – avesse fine al più presto.
Il buio restava costante come il destino nella tragedia greca e intorno non c’erano porte né si vedevano comunque dei varchi che facessero pensare all’esistenza di ambienti diversi; ovunque si sviluppavano soltanto corridoi, enigmatici ambulacri senza fine che irrisolti rimandavano l’eco di passi e i tipici rumori di un ufficio, saldamente perduti però chissà dove.
Lo zio aveva percorso un’altra rampa di scale, stavolta senza correre rischi, facendo assegnamento su una maggiore cautela e su un’accresciuta assuefazione all’oscurità, ma alla fine si era trovato di fronte a un nuovo reticolo di corridoi interminabili, demarcati tra uguali mura ciclopiche e sovrastati da severe ed essenziali volte a botte, interrotti soltanto dalle reciproche intersezioni ad angolo retto che si offrivano di volta in volta come altrettante occasioni di svolta.
A un certo punto il brusio metallico si era trasformato in qualcosa di più simile a un rumore di zoccoli e i passi avevano mutato cadenza facendosi più circospetti. Zoccoli e passi, passi e zoccoli, passi felpati, zoccoli e passi felpati lontani, sempre più lontani; poi di nuovo la certezza di quel brusio metallico e ancora i soliti passi giunti però indiscutibilmente alle sue spalle, vicinissimi. Mio zio era più che sicuro di non avere paura, anche perché sin dal principio di quella strampalata avventura non aveva smesso di ripetersi ossessivamente che era tutto a posto e che non aveva alcun motivo di sentirsi minacciato. Si era pertanto fatto coraggio una volta di più e, girandosi di scatto, era poi sobbalzato alla vista di un uomo alto e magro, pallido come una statua di cera, che lo guardava stralunato senza uscire mai del tutto dall’ombra che pareva trattenerlo a sé con volute di morbidi filamenti viscosi. Passata rapidamente l’esitazione dovuta alla sorpresa del primo momento, zio Dominic si era un poco avvicinato allo sconosciuto per studiarne meglio l’atteggiamento rendendosi conto subito che quell’uomo era disorientato nel vederlo almeno quanto lo era lui a motivo della sua presenza e aveva provato un immediato conforto da quella constatazione, ritrovando all’istante freddezza e spavalderia e quindi recuperando la posizione con fenomenale rapidità, proprio come era solito fare sul campo da tennis quando presidiava il centro geometrico dell’azione sempre a debita distanza da eccessi di temerarietà offensiva e di dinamica fantasia che l’avrebbero esposto al rischio micidiale di un passante (chiamato a rete da una palla smorzata, per esempio, mio zio rispondeva sempre con una contro smorzata, preparandosi eventualmente a chiudere lo scambio con un pallonetto oppure appoggiando il suo colpo vincente al volo in assoluta sicurezza e verso la profondità del campo ormai aperto). Lui e l’uomo nell’ombra si erano quindi fissati per qualche secondo senza particolari esasperazioni espressive, temperando in silenzio le estremità inutilmente pungenti di tutte le loro aspettative, ed erano infine sfilati via frettolosi, concedendosi appena l’educata formalità vicendevole di un cenno del capo, l’uno verso l’opposta oscurità dell’altro, ma entrambi egualmente sommersi dal brusio metallico che nel frattempo e con accresciuta ostinazione era risorto ovunque intorno a loro.
La rapida conclusione di quell’incontro privo di conseguenze apprezzabili come tutto quanto il resto aveva lasciato in mio zio una stanchezza leggera, la stessa che rasserena il passo con la lentezza senza tuttavia fermarlo completamente o che estingue le tensioni e le contratture della volontà in una sorta di stropicciamento sentimentale ispirato all’inerzia pur rimanendo sempre al di qua dell’accidia peccaminosa, un po’ come si dice di certi film che sono “liberamente tratti” da un romanzo. Dall’ineccepibile verità di quello sfinimento discendevano puntuali tutte le benefiche virtù del rinvio, tra le quali primeggiavano l’allegria per la calma ritrovata e l’emozione della spensieratezza che, discolpate non senza malizia dai dati di fatto, sospiravano a più non posso fantasie di svaghi liberi e immediati.
Più o meno alla maniera di uno studente universitario che si sgravi all’improvviso dalla tensione per un esame rimandandolo alla sessione successiva, zio Dominic aveva deciso tutt’a un tratto di rinunciare a quell’impresa e di tornare alla svelta sui suoi passi mentre ridimensionava uno dopo l’altro gli assennati argomenti di Mirjam valutandoli come altrettante, usurate espressioni di quello che per lui era l’unico esempio davvero colpevole di malavoglia: l’identificazione meschina, tipica dello spirito borghese, dell’assennatezza col riconoscimento dello stato delle cose, giustificato poi a prescindere da ogni altra considerazione mediante l’appello a un contraffatto senso di responsabilità.
Aveva abbandonato con delicatezza il modulo della sua domanda di collocamento in un angolo qualsiasi, sopra una sedia che pareva stare lì per puro caso, investita da una luce densa, rintracciata nella sua invisibilità da un fascio incredibilmente fitto di piccoli punti illuminati, ed era poi tornato indietro, percorrendo a ritroso e con eccessiva sicurezza il tragitto che poco prima l’aveva portato nel cuore di quella specie di labirinto. Per fortuna aveva trovato quasi subito la prima rampa di scale mentre, visto che la fortuna, oltre a non andare quasi mai in scena veramente per puro caso non replica poi comunque per nessun motivo, era stato costretto a girovagare piuttosto a lungo prima di scorgere e di imboccare la seconda. In fondo c’era il solito chiarore opaco, un piccolo furto provvidenziale alla stagione, filtrato da chissà dove.
Proseguendo nel suo cammino oltre lo spiraglio di luce e dopo l’estrema immersione nell’ennesimo ritaglio di quella vasta tenebra artefatta, zio Dominic  era giunto finalmente in prossimità del portone, schiuso ormai nemmeno per metà. Aveva notato di sfuggita e senza curiosità l’assenza in guardiola dell’omiciattolo megalocefalo in divisa, ipotizzando persino a un certo punto di non averlo mai incontrato.
Una volta fuori aveva ripreso confidenza con l’aria, con le forme della vita reale, con le nuvole, con l’enfasi provvidente della luce naturale e la compostezza sistematica di quella artificiale, e il suo pensiero, spinto da qualcosa di molto simile alla meccanica applicazione elementare di una formula per la soluzione di un problema di geometria, era andato a sorvolare l’immagine dai contorni già rabbuiati di quell’uomo alto e magro che ancora tardava a uscire e che stava seriamente rischiando di rimanere chiuso là dentro, a condividere il destino della sua domanda di lavoro redatta con grande cura in carta bollata ma abbandonata poi sopra un’incongruente seggiola ospitale e quindi perduta per sempre lassù, alle sorgenti stesse del buio, in un angolo qualsiasi del labirinto che anche tornando indietro gli sarebbe stato praticamente impossibile localizzare, con scarsissime probabilità di essere trovata dalla persona giusta – cioè un impiegato preposto a tale mansione – e infine evasa.
Mentre camminava svelto assaporando la voglia spensierata e pungente di ritrovare al più presto le simmetrie familiari della sua casa e di questa anche i soliti odori e persino tutte le variazioni cromatiche, parzialmente mutevoli ma sempre condensate intorno alle analogie felici tra il tempo che passa e il tempo che fa, zio Dominic non aveva mai smesso di pensare che quello di lavorare per vivere e di vivere per lavorare non era a conti fatti che un circolo vizioso, una trappola biblica data per scontata come succede sempre coi luoghi comuni e che lui tuttavia, guadagnando il massimo indispensabile dando solo lezioni di tennis, avrebbe a sua volta potuto ingannare, proprio come avviene nei finali migliori delle opere buffe. Perché se per lui il tennis praticato non poteva essere un gioco poteva esserlo invece il tennis insegnato, grazie all’assoluta inesperienza e alla conseguente impossibilità di competere degli allievi che facevano di loro stessi materia vergine e grezza messa a disposizione del maestro per creare altrettante invenzioni di giocatori, un mondo fantastico di tennisti immaginari.
In un primo momento nessuno della famiglia, a partire dai miei nonni, aveva creduto a questa strana storia, bollata subito come l’ennesimo tentativo dello zio di tirare a campare a modo suo, sennonché circa un anno dopo era arrivata la prova incontrovertibile: una lettera raccomandata dal Dipartimento del Lavoro e delle Pensioni del Ministero dell’Economia. C’era scritto: “Egregio Signor Benedict Holyfield, la sua domanda è stata regolarmente ricevuta e archiviata. Ci sono buone notizie per lei: si presenti presso i nostri uffici al più presto, con la presente e munito di valido documento d’identità. Distinti saluti”.
Ovviamente mio zio non si chiamava Benedict Holyfield ma grazie a un errore burocratico gli era stato in qualche modo presentato l’unico essere vivente – l’uomo alto e magro che aveva visto aggirarsi nei corridoi di quell’edificio ministeriale tanto sovrabbondante quanto privo di senso – che allora, seguendo il suo esempio, doveva verosimilmente aver deposto la sua domanda sulla stessa sedia solitaria e che poi, in seguito al medesimo equivoco, era venuto a sua volta a conoscenza del nome dello zio: per entrambi una presentazione del tutto inutile resa possibile da un’occasione pienamente mancata, una di quelle che però per zio Dominic costituivano la parte migliore della vita.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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