L’UOMO DISINCANTATO – Zio Dominic (3)

Dunque, insidiato all’epoca ancora dalla sua giovinezza, mio zio lasciava trascorrere la vita di nascosto, spiando il soffitto sul quale lunghe lische di luce bianca penetrate nell’ombra si susseguivano ordinatamente, leggendo libri sconosciuti e marginali nella sola lingua che conosceva – l’inglese – e bevendo quantità fluviali di caffè, forse con la segreta speranza di riuscire anche a morire un bel giorno di soppiatto per avvelenamento da caffeina.
Mentre sopravviveva in queste condizioni alla sua quotidianità – che tutti i membri della nostra famiglia definivano pietosa e deplorevole – riceveva di tanto in tanto le visite della figlia degli inquilini del piano superiore, una ragazza di origini gitane di nome Mirjam, con la quale, per la premura di cui era solito circondare le sue abitudini, teneva in piedi una tresca il cui unico aspetto davvero dignitoso era una reciproca e dichiarata mancanza d’amore. Circa due volte a settimana lei trovava una scusa da raccontare alla sua famiglia, che era ovviamente all’oscuro di tutto, usciva di casa, scendeva in fretta le scale e, dopo aver prestato attenzione all’eventuale presenza di qualche vicino ficcanaso dietro uno spioncino, suonava come convenuto per tre volte il campanello di casa di zio Dominic, costringendolo a penose levatacce nel bel mezzo di uno dei suoi tre o quattro riassopimenti quotidiani per poi infilarsi di corsa e con meccanica sfacciataggine nel suo letto. Nonostante questa invadenza un po’ sopra le righe, a mio zio piaceva molto avere rapporti sessuali con lei soprattutto per via della sua irrefrenabile tendenza a farsi carico di ogni cosa: infatti si spogliava, lo spogliava, provocava la sua eccitazione e poi se ne restava lì, con le spalle dritte e le gambe aperte, a muoversi a tempo e con un gran senso del ritmo, vitalistico, quasi schumanniano, mentre a lui non rimaneva altro da fare che lasciarsi ipnotizzare dalle oscillazioni leggere di quel bel seno bianco e sbarazzino che gli ricordava in qualche modo la permanenza della luce sotto le palpebre di due occhi abbagliati, tenendo senza fatica lo sguardo fisso sulle punte pallidamente rosa dei capezzoli. Quando poi Mirjam se ne andava, di solito dopo circa mezz’ora, zio Dominic si accorgeva subito e misteriosamente di non rimpiangerla in alcun modo, sebbene appunto le sue visite non gli dispiacessero affatto. Lei lo metteva ogni volta di fronte a una frattura sorprendente e insospettabile, che per certi versi ancora faticava a mettere a fuoco: quella cioè tra il piacere e il desiderio, una biforcazione che isolando il primo in una condizione puramente episodica, più o meno casuale, gli toglieva l’aura dell’aspettativa e il valore del traguardo, negando così non solo la possibilità romantica di una relazione di causa ed effetto col secondo ma anche quella più concreta dell’avvento di una vera e propria profondità progettuale. Non sarebbe azzardato dire che andava delineandosi proprio allora, sia pure con tutta l’immaturità e le imperfezioni della cosiddetta età più bella, l’irriducibile distanza pornografica tra lo stile di vita di mio zio e la comune bonomia dell’erotismo.
A prescindere da ogni altra considerazione però, in quel particolare momento di languore inconcludente e di assoluta deriva anche economica della sua esistenza, era proprio allo strano rapporto con Mirjam che zio Dominic doveva le uniche simulazioni attendibili di una vita pressoché normale.  Almeno fino al giorno in cui, consumato abitudinariamente quanto tra di loro c’era da consumare, lei, invece di sgattaiolare via come al solito dopo un saluto e un sorriso (in quest’ordine), aveva introdotto una variante nella consolidata dinamica di quegli incontri trattenendosi più a lungo a letto per parlare.
Sorridendo in modo vagamente infantile ma non per questo poco autorevole, aveva esortato lo zio a cambiare vita, elencando tutta una serie di ottime ragioni che avrebbero dovuto spingerlo a cercare un lavoro, a trovare una casa più accogliente e dignitosa, a farsi degli amici, a prendere moglie, a generare dei figli, e addirittura a interessarsi di musica rock liquidando almeno in parte la sua morbosa assuefazione ai classici che secondo lei nascondeva disimpegno e mancanza di curiosità. All’inizio zio Dominic aveva sospettato che dietro quella predica potesse esserci lo zampino dei suoi genitori e, in alternativa, si era illuso che tutt’a un tratto Mirjam fosse impazzita; ma poi, non potendo sostenere troppo a lungo il biasimo incorruttibile dei suoi grandi occhi da bambola voodoo, si era rassegnato a darle ragione, promettendole che l’indomani si sarebbe recato agli uffici del collocamento per fare richiesta di un lavoro.
Mio zio non aveva mai avuto una predisposizione naturale al rispetto della parola e degli impegni ma quella volta, incoraggiato dalla più assoluta mancanza di aspettative concrete, aveva deciso, in forza di una suggestione tanto generica come possono esserlo a marzo appena iniziato e in relazione all’arrivo della primavera certi rapidi profumi di fioriture stravaganti o quelle volute di luce in cui il bianco si circonda appena di flebili orlature dorate, si era deciso a onorare la sua promessa.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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