Gli increspamenti placidi e tenui dei canali adornavano Venezia al passaggio delle gondole lente ed erranti, intorno ai traghetti peripatetici e ai motoscafi sportivi; la luce si propagava ovunque solo attraverso la fragilità di una mediazione: essa era infatti a volte cristallina come quella riflessa da uno specchio, altre volte invece dondolava opaca, quasi irrorando schiere di vetrate immaginarie, fino a coagularsi qua e là nel rossore elusivo e ipotetico di schiere di lanterne. Percepivo un liquido, continuo spostarsi del paesaggio avanti e indietro, che pigramente si rimescolava sempre allo stesso modo tanto nell’andare che nel venire: niente di comparabile alla stabilità quasi assoluta ma a modo suo vivace di ogni cosa in quei giorni, a Wimbledon, quando eravamo giovani e nessuno di noi nutriva una chiara, unica aspirazione da soddisfare ma aveva senza dubbio la voglia, ancora integra, di abbandonarsi alla forza indisciplinata dei più confusi e caotici sogni di vita e di gloria. Allora ci facevamo coraggio a vicenda, aggregati dall’amore per il tennis in una connivenza tanto insolita quanto impareggiabile, e così, insieme a noi stessi, prendemmo in giro anche tutto il mondo, relegandolo ai margini di quel nostro minimo ma indubbiamente compiuto universo.
Niente a che vedere coi figli del nuovo millennio, che nascono con un cuore astemio, tanto che pare si debba ormai dare per scontato che l’ubriachezza sia un privilegio ideale riservato ai soli aborti.
Quanto a me, non frequentavo più nessuno che non avessi incontrato prima degli ultimi cinque anni. Le cose della lontananza si erano disperse e riposavano, forse in pace o forse no. La mia vita si era ristretta, come un brodo recente di tiepida noncuranza, che profumava ancora di buoni aromi sentimentali, sebbene sempre più teorici, insaporito senza particolare allegria da sbrigativi pizzichi di sale compatibili col controllo dell’ipertensione.
Non riuscivo a vedere più niente al di là di un semplice abbraccio; ero cieco di fronte alla distanza delle cose più remote, che mi guardavano mute, alla maniera delle aquile in volo, rapaci, in mezzo alle nuvole; nuvole che intanto cerchiavano il sole, come le occhiaie dei vecchi.
È in verità sempre faticoso, ma di tanto in tanto anche teneramente inevitabile, rendersi conto di contemplare il mondo e le sue cose con uno sguardo interiore in grado di attingere ancora con precisione alle scorrevoli velature emotive di un’antica imperturbabilità di stampo giovanile, giacché queste si offrono giorno dopo giorno sempre più irrigidite, quasi ansiose di raggiungere il buio promesso della propria notte, mentre il solito mondo intanto si sgretola e invecchia, si dissolve in impressioni fuori tempo massimo, si spopola tra lutti, malinconie e perdite di vista.
(estratto dal terzo volume)
©Andrea Rossetti