L’UOMO DISINCANTATO – Uno sguardo disincantato (5)

Mi ero avvicinato col viso a una distanza di pochi millimetri dal vetro della finestra, mosso probabilmente dalla volontà inconscia di spingere il mio corpo sino alla massima prossimità possibile con la mia adorata Miss Lilith Langtry (i sogni, in quanto protetti dall’astrazione di una finta assolutezza, sono spesso molto più dogmatici e spietati della realtà nel momento in cui si tratta di imporre ai loro sognatori dei divieti privi di senso), rendendo così una giustizia almeno simbolica alla mia volontà originaria che, elettrizzata dalla promessa di una completa unione fisica con l’oggetto della mia passione e dei miei desideri, si era determinata fin da subito a rimuovere ogni eventualità in grado di mettere a rischio, nello spazio così come nel tempo, il raggiungimento ultimo della piena prossimità tra i nostri due corpi eccitati. La spinta interiore a incollare la sagoma del mio volto e quante più parti possibili del mio corpo al vetro di quella sciagurata finestra, togliendo così di mezzo per intero, sia pure senza costrutto, il mio distacco da Miss Lilith (ma non la nostra separazione) che la disperata circostanza onirica nella quale mi trovavo mi permetteva in effetti di annullare, era in fin dei conti tutto ciò che rimaneva – una specie di fossile triste o un’impronta lasciata sul suolo dal passaggio preistorico di un dinosauro estinto – di quella mia determinazione iniziale, sgorgata, insieme a un’allegria ancora vergine, dal centro più intimo e fragile del mio sogno.
Il panorama, al di là della casa, si lasciava scorgere da quel punto solo doppiamente filtrato dal vetro sudicio della finestra alla cui superficie crudele mi ero alla fine arreso e definitivamente abbandonato con tutto il peso del mio sogno e, al di là dello spazio interno, le cui proporzioni erano peraltro sempre meno decifrabili a mano a mano che il tempo trascorreva (per quanto la misura dei sogni possa sensatamente definirsi tempo), chiuso dal suo perimetro ormai incerto, fatto e disfatto da un gioco labile di mura e di specchi e occupato dalla danza imperterrita ma anche dolcemente rassegnata di Miss Lilith, da quello, altrettanto sporco, di una seconda finestra, collocata in una posizione perfettamente simmetrica rispetto alla mia; e aveva – il panorama – quelle sbavature biancastre tendenti al grigio tipiche delle polaroid scattate in fretta e male che fanno sembrare il cielo malato di qualcosa di imbarazzante a prescindere e la terra, invece, simile in tutto a un piccolo piatto di porcellana molto prezioso ed elegante sul quale però sia stata servita in modo maldestro una crème caramel grande quasi come una torta di compleanno.
Attraverso i vetri sudici di quelle finestre la luce naturale penetrava dall’esterno e riempiva il casale, scuotendone a fondo gli spessi veli d’ombra come se fossero tanti vecchi tappeti impolverati, con un’intensità che in certi momenti diventava davvero troppo invadente e assoluta per essere autentica, anche – e forse soprattutto – in un sogno, e questa vaga ma ben diffusa consapevolezza, galleggiando a fondo perduto sulla vibratile periferia della mia coscienza, diventava implicitamente una sicura avvisaglia del fatto che il mio risveglio e quindi la fine della visione erano ormai prossimi.
Nel suo sincopato spandersi e avviticchiarsi quella luce era caduta infine tutta addosso allo schermo di un vecchio televisore portatile 17″ posto su una credenza che fino ad allora non avevo neppure notato, nonostante con ogni probabilità fosse già acceso fin dall’inizio del sogno. Era uno di quelli con le antenne che li facevano sembrare delle grosse teste di grillo e le manopole per la sintonia dei programmi e le regolazioni della luminosità, del volume e dell’accensione poste una accanto all’altra nella parte superiore. La scena che trasmetteva appariva scolorita e spettrale a causa del riverbero eccessivo di quel fascio di luce ma rimaneva tuttavia inconfondibile: erano senza dubbio le immagini dell’assassinio di JFK a Dallas. Intravedevo la limousine Lincoln presidenziale che procedeva alla giusta lentezza, la first lady che alternava dei sorrisi standard, a uso e consumo della gente comune, a quelli, ben più complici e confidenziali, rivolti invece al marito, al governatore dello stato del Texas e a sua moglie, finché tutta quella grande festa, quella gioia così ingenuamente americana, non veniva scheggiata dagli spari secchi del fucile e infine imbrattata dai sanguinosi brandelli del cervello del presidente degli Stati Uniti. A quel punto, emergendo da qualche insondabile nulla emotivo, il mio sonno aveva cominciato a piangermi addosso, proprio come avrebbe fatto quello di un bambino.
La comparsa sullo schermo della piccola televisione delle immagini inespressive e sgranate della sequenza dell’attentato mortale a JFK – che tante volte avevo viste e riviste e che a un certo punto un tormento ineffabile e segreto aveva sottratto alla mia memoria cosciente affinché potessero essere risucchiate e messe al servizio delle più oscure necessità dell’inconscio – aveva innescato, seguitando le orme di quei demoni che una volta s’impossessavano a tradimento dei corpi degli uomini moralmente più fiacchi e dissoluti, una specie di turbine temporale, uno sbandamento al centro di una dimensione – quella del tempo, appunto – che sin dall’inizio il sogno nel quale ero immerso sembrava invece aver sospeso e addirittura esorcizzato. Infatti, assecondando un’improvvisa fuga in avanti, come per una variazione musicale sul tema del principio di Archimede uguale e contraria rispetto all’avvento della memoria del mio sogno, mediato appunto dal cavallo di Troia della scena grigiastra dell’omicidio Kennedy, il corpo di Miss Lilith era stato investito da una metamorfosi gommosa, da una manipolazione in tutto e per tutto naturale tranne che per la sua visibile rapidità, simile a quella di certe riprese documentaristiche a camera fissa – dal tramonto all’alba oppure dalla furia buia di un temporale al ritorno alla pace luminosa del cielo sereno – che poi, in sede di montaggio, vengono accelerate in modo spettacolare e contratte agli occhi dello spettatore nello spazio di pochi secondi. Erano in sostanza soltanto delle comuni mutazioni climateriche, niente di veramente straordinario, che però, infiltrandosi con sottile malignità tra le immagini dell’attentato trasmesse così all’improvviso dalla televisione e la consapevolezza che avevo, e che in coscienza ritenevo di possedere, della bellezza perfetta di quel corpo giovane e inviolato, mi avevano investito alla stregua di qualcosa di mortale. È quasi impossibile notare dei cambiamenti in ciò che si ha sotto gli occhi tutti i giorni ma l’accelerazione dei fotogrammi – in un video così come in un sogno – non lascia scampo e quella specie di caparbia velocità futurista può infine rendere drammatico ciò che di solito l’abitudine riesce a diluire: ed ecco allora che le morbide gambe guizzanti di Miss Lilith erano diventate più massicce e legnose, i suoi fianchi si erano rattrappiti mentre la sua vita si era andata accasciando, priva della benché minima gentilezza; i suoi seni dondolavano flaccidi come altalene vuote in un giorno in cui il vento è gentile; la pelle del suo volto cedeva rispetto alle stabili proporzioni del cranio; prendevano forma due guance da molosso mentre la pelle sotto il mento si sgualciva e quella intorno alla bocca cominciava a raggrinzirsi alla maniera della buccia di una prugna secca.
A quel punto mi ero svegliato di soprassalto, drammaticamente ferito in sogno dal tempo e risoluto a non vederla mai più, per nessun motivo al mondo; e la mattina successiva, quando Ebenezer Pierre Deslonde si era presentato a casa nostra con l’ennesima scusa, piluccando gratis la solita mezza prima colazione, avevo infine accettato il suo passaggio in macchina fino a scuola, anche se, sapendo fin dall’inizio che avrebbe provato a darmi una pacca sul sedere, ero riuscito a svicolare al momento giusto, chiudendogli la portiera dell’auto su tutte le falangine e le falangette della mano sinistra.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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