Il lieve tremito dell’aria, rimescolato con gli aromi diversi della pietra e delle piante, aveva preso infine nel mio sogno un sentore dolciastro e poroso, stabile nel clima ovattato di silenzio, dandomi il poco coraggio sufficiente per spingere quel cancello, di fatto già aperto, che, con un cigolio simile al fischio di un merlo, era subito scivolato in avanti, ancora obbediente nell’abbandono ai suoi cardini malandati.
Nel compiere quell’atto mi sentivo come un prete cattolico quando, con la strana solennità rituale propria dei gesti che assumono i caratteri meccanici dell’automatismo al solo scopo di poter restare giorno dopo giorno sempre uguali, apre il tabernacolo per distribuire ai fedeli le ostie consacrate contenute nella pisside al momento della comunione. Non si trattava di una delle tante, volatili sensazioni avulse o addirittura del tutto incongruenti che di solito se ne vanno in giro nei sogni delle persone: della nebbia profumata di poco prima era infatti rimasto nell’aria appena un remoto ma gradevole sentore sacro d’incenso mentre i raggi ormai trionfanti del sole, riflettendosi sui vetri delle finestre della facciata del vecchio casale, venivano potentemente riverberati verso i miei occhi fino a spolverarne la capacità visiva con una trama biancheggiante e translucida, l’ordito lievissimo di un ideale lino luminoso dietro il quale ogni cosa diventava mistica e finiva per somigliare a un’apparizione.
D’un tratto mi ero ricordato (ammesso che di ricordi si possa davvero parlare nel momento in cui il contesto è già quello di un sogno) di quell’estate in cui, quando i miei genitori erano ancora vivi, avevamo fatto un bellissimo viaggio in Italia, a Ferrara, Rimini, Ravenna e quindi un po’ in tutta la Romagna. Era l’epoca della mietitura e l’aria di quei posti profumava di pane appena sfornato. A me piaceva seguire le trebbiatrici per chiedere poi ai contadini – che mi trattavano sempre con simpatia anche perché li facevo ridere ogni volta che pronunciavo le poche parole italiane che conoscevo col mio accento inglese – il permesso di tuffarmi nelle cataste di paglia prima che loro le legassero in grandi parallelepipedi da sistemare poi nei fienili. E avevo provato sensazioni simili anche quando avevamo visitato la Borgogna, al tempo della vendemmia, sempre noi tre da soli, insieme, durante un altro dei pochi anni in cui eravamo stati una vera famiglia. Rammentavo bene (sempre nel senso che un ricordo può avere in un sogno) il passaggio dei carri stracolmi d’uva e l’odore intenso che saliva dai tini in cui poi la pestavano coi loro piedi decine e decine di donne giovani, allegre e scosciate fino al ginocchio, tutte con dei meravigliosi polpacci candidi.
Di fronte a quello strano miraggio mi ero reso conto che non stavo guardando come al solito il mondo intorno a me (anche rispetto a tutti i sogni precedenti), facendo per la prima volta l’esperienza consapevole di cosa fosse un vero sguardo disincantato. Questo tipo di sguardo scaturisce all’inizio da un sospetto, da un dubbio a modo suo musicalmente confidenziale, un tacito contrappunto, non privo tuttavia di qualche muta insidia atonale, che in teoria dovrebbe avere una genesi del tutto logica ma che invece rivela all’istante, nel più intuitivo possibile dei baleni della coscienza, di essere tale per davvero solo in parte, mentre per altri versi somiglia molto di più a un’attitudine, all’impressione fortuita di un lascito genetico: la sfiducia innata nell’univoca totalità del sistema della visione, che restituisce un insieme, un paesaggio, a scapito di un numero incalcolabile di singole variabili. Uno sguardo disincantato soggiace al dominio dolce della distrazione e, grazie a questa sua debolezza apparente, a questa sua sensibile assunzione di responsabilità rispetto all’incompiuto e al frammentario, presta il proprio naturale abbandono ai lampi più perduti della luce, alle vibrazioni più inconsistenti che si scambiano in segreto le forme e i colori, allo scricchiolio della vita allorché si lascia andare a movimenti troppo intimi e quasi impercettibili. Lo sguardo disincantato si scompone, si disunisce, per comprendere tutte quelle eccezioni che, pur essendo parti integranti del tutto, vengono di solito sacrificate al concetto d’insieme e messe da parte, costrette a uno sconfinato abbandono percettivo, ai margini degli ambiti favoriti e celebrati della consuetudine e della prevedibilità; esso smentisce nella visione qualsiasi irrigidimento di tipo pratico che abbia come fatale punto d’arrivo uno stereotipo e quindi una forma più o meno nobile e raffinata di mediocrità.
Ecco perché nel mio sogno, dolcemente distratto dal fatto di non soccombere ad alcuna esigenza, io potevo vedere ogni cosa nel dettaglio, e vedendo riuscivo anche a sentire nel medesimo modo: la piccola aiuola dei lillà di fronte a me aveva infatti un odore tanto vago quanto penetrante, fatto di resine quasi orientali, di argilla, di candele alla vaniglia e di biscotti all’uva passa.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti