A un certo punto si ritrovarono immersi in un profondo silenzio: seguendo il percorso reso ormai obbligato dalla sua lampante comprensibilità, erano sbucati in un corridoio dall’aspetto vagamente ospedaliero – a causa soprattutto della grande guida verde in linoleum distesa al centro per tutta la sua lunghezza – che, avendo una parete aperta da una serie di vetrate inserite in leggeri telai di alluminio, costeggiava su un lato il primo degli edifici del comprensorio nel quale era stato ricavato il teatro. Qui si imbatterono in alcune persone che, incoraggiate da una calorosa illuminazione al neon, chiacchieravano tra di loro ripartite in sparuti capannelli. Era un fiducioso condensato di piccola borghesia modesta e gentile, incuriosita senza troppe pretese intellettuali dal teatro d’avanguardia e vestita per l’occasione coi migliori abiti alla moda dei grandi magazzini: né più e né meno che uno spaccato della parte sana di una società laboriosa concessa per una sera, con lo stesso spirito cellofanato di un’avventura di Barbie e di Ken, alle eccentricità della bohème metropolitana.
Entrarono in un arioso porticato che circondava per intero un cortile posto al centro di un edificio a forma di parallelepipedo retto a base quadrata dalle mura molto alte sulle quali si aprivano qua e là, all’apparenza senza seguire un criterio logico nel collegarsi a una struttura interna fatta di ambienti aventi una chiara relazione architettonica tra di loro, varie grandi finestre, di cui anche tre o quattro di forma ogivale, alcune finestrelle, per lo più rettangolari, e piccoli balconi impacchettati da tende leggere di vari colori che si gonfiavano immediatamente ogni qual volta un minimo alito di vento veniva per caso intercettato e dirottato in quell’imbuto dove nel frattempo grandi lenzuola stese ad asciugare su corde sottili dondolavano come quei festoni che ai tempi della scuola i responsabili dell’organizzazione delle feste studentesche improvvisavano alla buona solo per non lasciare le sale da ballo spoglie e del tutto prive di addobbi. Il primo pensiero di Peter fu che quel posto avesse un aspetto quasi magrebino, perché gli ricordava la distribuzione degli ambienti secondo lo stile arabo-andaluso e in un certo senso anche le atmosfere tipiche di un piccolo mondo elevato e aperto verso l’alto ma chiuso in se stesso per custodire i segreti dell’intimità quotidiana di chi vi abita che aveva conosciuto bene nei riyāḍ di Marrakech. Quell’angolo idealmente estrapolato quasi alla perfezione da una qualsiasi medina del Marocco entrava però in contrasto coi ricordi che aveva di quel mondo – molto nitidi a causa della sua predisposizione sentimentale a subire il loro fascino – riguardo a un particolare tutt’altro che trascurabile: chi conosce le città arabe, soprattutto quelle più antiche, sa bene infatti che esse sono caotiche, colorate, rumorose, e che è difficilissimo trovare un angolo che resti silenzioso davvero a lungo; ebbene quell’appartata chiostrina era invece un perfetto cubo di silenzio, una cascata d’aria che veniva giù dall’alto completamente purificata da ogni minima traccia di scorie sonore; e quest’impressione, dissolvendo in un istante le precedenti, aveva infine consegnato a Peter la patetica verità (un’altra ancora!) di quel posto, ovvero la sua non appartenenza ad alcun luogo. La Lady si accorse di quel pur infinitesimale smarrimento del suo amante e lo prese sottobraccio, stringendolo a sé senza parlare, in un accordo istintivo e riverente con l’indole silenziosa dello spazio che stavano attraversando; ma poi, forse ispirata dal desiderio di marcare alla vista di entrambi la distanza irriducibile che comunque la separava dal tetro anonimato di quel luogo, decise di sorridere, e lo fece accogliendo il primo guizzo improvviso di luce artificiale circostante tra l’ombra ormai da tempo reclinata sui suoi occhi e il molle chiaroscuro che intanto tratteggiava le sue labbra, tenendo fermo il volto di Peter al centro del suo sguardo, con tutta l’eleganza schietta, da adolescente, di cui era capace, mentre lui, lieto di presagire una risorta intimità tra loro, non smetteva di eccitarsi sfiorando col gomito il suo seno. Poi, dopo aver varcato insieme l’ultima porta stretta, uscirono finalmente sotto un cielo bluastro, elettrico di stelle, giusto davanti al grande cortile che, attraversato alla spicciolata da una piccola folla, dava sul teatro.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti