L’attore entrò in palcoscenico camminando all’indietro; indossava un frac di una taglia più piccola e teneva in mano un teschio – era facile intuire che si trattava di quello di Shakespeare – con due baffetti e un pizzo attaccati in modo visibilmente sbilenco. Era un biondino riccioluto, segaligno, dallo sguardo vispo e guizzante, e doveva aver bevuto parecchio perché, prima di iniziare il suo monologo, si era lasciato andare a un rutto fragoroso suscitando l’ilarità del pubblico accalcato in sala, qualcuno a sedere, ma per la maggior parte in piedi, come in un vagone di terza classe.
Senza attendere che il silenzio si ricomponesse e del tutto indifferente alle risate, aveva cominciato: “Essere e non essere: ha senso dunque che io scelga? Pare, a sentire te, Willy, che il mio avere luogo, il mio occupare con spirito di contrafforte lunare queste tavole corrose dal transito logorroico dei miei molti idolatri – ne scorgo, ridendo, le maschere e l’illusione, quella che vorrebbe loro persone, amabilmente e a tempo dedicate a me, personaggio – sia in qualche modo diverso dal triste non avere più luogo di mio padre, dalla sua orribile cattività oltremondana che raggiunge infine queste tue parole scritte soltanto come il volo migratorio di una cicogna che trovi per errore il sogno di un neonato. Essere o non essere presenti: è questa la vera scelta? Annullare la molle suggestione di riconoscere la verità nella melodiosa tessitura delle parole che tu mi hai dato, nella rocambolesca follia di attribuire nomi alle idee che a milioni attraversano questa scena, scrutando con un microscopio aristotelico l’infinitamente piccolo come fosse la volta celeste, con lo spirito assorto e assoluto di un astronomo d’oriente, oppure decidere di rimanere loro fedele sino a calunniare la sorte, sino a quegli estremi confini che, per non ammettere la sconfitta, con grottesca ironia chiamiamo destino…
Ho scelto, Willy, e ho scelto contro di te. Ho scelto la tenerezza dell’ombra, ho deciso di sottrarmi alle tue parole, di dormire lontano dalla spaventosa quiete di una dimora tracimante di abissi che non ho voluto, nella quale la nebbia gelida del nord simula nei nostri cuori le anime che ci sono negate così come fanno i filari delle torce con l’occhiuta provvidenza di divinità fameliche e rapaci. Sì, io ho scelto, Willy, di non essere.
Dunque sono morto, ho trapassato il mio cuore con la punta lancinante di quello stiletto che tu stesso mi hai suggerito, interrompendo così il ritorno perpetuo delle tue parole nella mia bocca; ho alzato per sempre una diga fra me e la tua poesia indugiante sul mio dolore. Mai più moriranno mia madre e Laerte, nessuno darà più la notizia che Rosencrantz e Guildernstern sono morti! Bastava poco – come vedi – per fermare il corso sciagurato di tanto dolore! Bastava che il principe Amleto decidesse di morire o, come dici tu, di non essere… Ora davvero questa è la scena del nulla, ora sì che quella quinta è il luogo del vuoto… Ascolta, Willy, scruta in profondità questo silenzio: uno per uno i miei passi risuonano là dove una volta furono le tue parole. Ora non c’è che il vento. Ulula il mare del nord preghiere accorate di roccia e bestemmie d’acqua dolorosa. Scorrono infiniti i camminamenti sulle mura e le sale si susseguono illimitate a scandire il mio percorso verso il tuo limbo. Tutto è finalmente inutile, Willy, e straordinariamente perfetto.
Eppure aveva senso che scegliessi alla tua maniera? Guarda: io sono morto, secondo te quindi non sono, e d’altra parte la tua poesia per mio volere si è interrotta e tace. Di chi sono allora questi discorsi? A chi appartiene questa mia voce? Chi è che parla al di là e nella livida bocca di un suicida di parole? Non si lasciano scorgere spettri in seno alla scena, e nemmeno angeli o demoni… Ci sono più menzogne nella nostra buona fede, William, che nell’intero scorrere del tempo… Cosa sono dunque l’essere e il non essere se non sono la mia vita e la mia morte? È qui il seme della pazzia che hai generato in me senza capire, confuso come un bambino osceno dall’immanenza degli oggetti e delle presenze, qui, nel doppio fondo rivelato della voce che morto mi oltrepassa e si fa coro del dramma interrotto, eco di maschere immobili e negate, predilezione del silenzio per la vita marginale delle ombre. Ecco che viene a me la vera inquietudine del principe Amleto, viene e mi trova qui solo e senza casa, avanza minacciosa perché ormai nemmeno la morte ho più dalla mia parte per fuggirla e intanto le quinte si chiudono l’una sull’altra, con meccanica grazia da corolla, in attesa dell’alba della prossima notte. Siediti accanto a me, Willy, occupa il posto vuoto di mio padre, perché al cospetto dell’eternità sei proprio tu lo spettro parlante di colui che mi rivela il marcio del Regno e il penoso Oltretomba, e attraversiamo insieme questo silenzio. Ascolta: ovunque già canta il moto corale dei pianeti, la musica imperturbata della gravitazione universale, l’espandersi lento e inarrestabile di tutto fin dentro la povera terra delle nostre parole. Come acqua e ninfee si toccano infine l’essere e il nulla…”
Il pubblico se ne stava in religioso silenzio, accatastato in modo non troppo dissimile da quello in cui, dopo qualche scricchiolio di prammatica, finisce per assestarsi un cumulo di vecchio mobilio commerciale, chiuso in uno scantinato da un rigattiere ancora a corto di idee su cosa farne. All’epoca giocavano un po’ tutti, e massimamente gli snob affamati di sempre nuove tossicodipendenze e di rocambolesche emozioni nichiliste, a fare la parte dell’intellettuale perspicace e nessuno quindi tra i presenti voleva dare l’impressione – prima di tutto a se stesso – di non cogliere la complessa profondità del messaggio di quella sconclusionata messa in scena. Così sopra i volti di ciascuno finì per stamparsi a poco a poco la medesima smorfia gelatinosa del pesce appena pescato, una finzione collettiva di rara tetraggine che, osservata nel suo agghiacciante insieme dal punto di vista del palcoscenico (la sala era spesso illuminata a metà perché l’addetto alla luci, anche lui di sicuro in piena crisi di astinenza da qualcosa, si ostinava a scivolare roteando i fari con la sincopata serialità degli spasmi di una contraerea impazzita), dovette evidentemente urtare la suscettibilità e lo scarso autocontrollo di uno degli attori che partecipavano allo spettacolo, ormai prossimo a trasformarsi, forse con la benedizione degli autori, in un vero e proprio happening infernale.
Entrò quindi in scena all’improvviso e senza alcun dubbio fuori luogo questo gigantesco Polonio, un omaccione brizzolato, obeso e alto almeno un metro e novanta, che indossava una t-shirt col simbolo chimico del polonio stampato sopra a caratteri cubitali e un paio di pantaloni di velluto di un colore indecifrabile, qualcosa di vago tra il ciano e il verde marcio. Urlava, producendo tra le parole un’infinità di rantoli e fischi cosicché dalla sala non si capiva nulla di cosa stesse dicendo; era chiaro a tutti però che quel suo dare in escandescenze non era scritto nel copione. Giunto in ribalta, slacciò la patta dei calzoni e cominciò a orinare sull’unica coppia elegante di mezz’età fortunosamente seduta in prima fila, poi si gettò inarrestabile e furioso sul cibo apparecchiato per la scenografia e, in preda a una sorta di foga dionisiaca, spappolò un intero gateau di patate in faccia ai due malcapitati prima di iniziare a bersagliare ridacchiando l’intera platea con brandelli di pollo arrosto e schizzi di vino. Nessuno si muoveva, un po’ per la sorpresa, un po’ perché, vista la calca, sarebbe stato più facile ascendere al cielo. La coppia elegante, ridotta ormai a una pattumiera, cercava di darsi un contegno e di sorridere qua e là, a chi capitava, con l’aria degli habitué che la sanno lunga in materia di teatro d’avanguardia. Prevedendo il peggio, Peter prese la mano della Lady e, spintonando chiunque avesse a tiro, riuscì a farsi largo fino al bagno, una specie di cubicolo maleodorante tirato su col cartongesso ma posto almeno in posizione strategica rispetto all’uscita posteriore.
La situazione, infatti, era sul punto di degenerare ancora. L’enorme Polonio, evidentemente non ancora soddisfatto della sua esibizione fuori programma e lasciato libero di andare a briglia sciolta dagli altri attori (che dal canto loro si guardavano bene dall’intervenire, senza dubbio per timore della sua stazza ma anche per la gratificante piega alla Living Theatre che stava prendendo tutta la faccenda), aveva impostato la voce su un registro tenorile e, dando prova di un’insospettabile perizia tecnica, aveva intonato una specie di struggente mottetto accompagnandosi con un theremin che suonava agitando le mani a casaccio:
“Acqua e tempo e caste dive:
da ospite spio la grande supposizione,
sopporto, vedi,
l’anima decorrente e temporale
e la cadenza minima del male,
perché il bene invece non ha ritmo
ma reconditi motivi
inutilmente ritrovati
dal canto immortale di queste mie sirene,
che attendo con dote di silenzio e di pazienza…
Il volto di mia madre cremato dal mare
aveva insospettabili tepori
e infinite, riposte abilità di avere cura.
Le mani di mio padre
simulavano nidi di rondine nel dare
e albatri la bocca
nel dire baratri penosi di pensiero.
Benedetta sei tu
che vieni a me nel nome della corrente,
addito inutilmente senza voce
l’azzurrità del tuo canto ad assenti
maestri cantori!
Ti muovi sulla destra e poi a sinistra,
fai mezzo giro al centro su te stessa,
megattera battezzi
il frutto del tuo ventre,
Norma,
impronta,
acqua salata,
noi soli,
sull’asse sghembo della mia devozione orizzontale:
das natürliche Dasein, consolazione
che mentre affonda nel mare ascende al cielo!
Evviva le balene canterine!”
A quel punto il pubblico era ripiombato in un religioso silenzio; nonostante fossero tutti pigiati senza speranza tra l’unto del pollo arrosto e i goccioloni di vino rosso che venivano giù perfino dal soffitto (a parte la coppia elegante che doveva vedersela anche coi brandelli di gateau di patate e con la puzza di orina), se ne stavano assorti, immobili, quasi affatturati da quei suoni incoerenti, da quella voce potente eppure piena di candore infantile, dalle parole bellissime e incomprensibili del suo canto. Alla fine il gigantesco Polonio scoppiò a piangere a dirotto e, mentre gli spettatori applaudivano freneticamente il suo strano interludio, estrasse da quei suoi pantaloni di colore oscuro una pistola Walther P38, la portò accanto alla tempia e si sparò un colpo, manco a dirlo in direzione della malcapitata coppia elegante che, nel montante orrore generale, fu investita da un getto copioso di sangue e di cervella.
Per qualche istante il silenzio si protrasse senza incrinature, come se, per un corto circuito della coscienza collettiva, raggelata nel persistere degli effetti dell’ipnosi scenica appena trascorsa, e visto che si dava comunque per scontata la natura ingannevole di ciò a cui si era assistito, ci si aspettasse da un momento all’altro la resurrezione teatrale del simpatico e ciclopico Polonio. L’orrida imbrattatura della coppia elegante recitava però di fronte a tutti una realtà ben diversa e fu proprio l’urlo liberatorio di disperato ribrezzo della donna che, in preda a un attacco isterico, aveva iniziato anche a dimenarsi come la versione bianca e infelice di Joséphine Baker investendo i vicini coi brandelli della schifosa poltiglia che aveva addosso, a porre fine alle trasfigurazioni improbabili dell’estasi. Fu sufficiente una manciata di secondi perché si scatenasse una baraonda spaventosa. La gente scappava senza avere la benché minima idea di dove andare e quindi si ritrovava quasi sempre al punto di partenza o giù di lì; il loro era più che altro un fuggifuggi fine a se stesso, tutto di principio. A Peter e alla Lady, che se ne stavano rintanati in bagno sopportando stoicamente il fetore in attesa del momento giusto per guadagnare l’uscita sul retro, sembrava di assistere a una quadriglia ballata da un gruppo di pazzi in manicomio durante l’ora d’aria: c’era chi nell’agitarsi riesumava vecchi tic dimenticati, chi s’inchinava per gattonare, chi saltava tra la folla nella speranza di scorgere un volto amico o una via di fuga, chi spingeva il vicino schiaffeggiando il nulla e chi invece schiaffeggiava il vicino spingendo il nulla; insomma un tritacarne inesorabile, al cui interno anche il linguaggio aveva subito una sorta di regressione al grado zero: le parole sminuzzate in fonemi, allineate dai rumori, sprizzavano fuori come le scintille di una fiamma ossidrica, la lingua era in uno stato di sospesa liquidazione e il dialogo aveva subito scacco matto dalla prossimità assoluta dell’ammassamento dei corpi. Ognuno era in fondo da solo con se stesso e, contagiato dalla glossolalia convulsa del terrore, parlava ormai soltanto per urla e interiezioni misteriose.
A interrompere bruscamente quella rivisitazione improvvisata del finale del primo atto dell’Italiana in Algeri di Rossini (in cui tutti i protagonisti si ritrovano sulla scena a riflettere simultaneamente e a voce alta sui propri problemi cosicché, mentre i pensieri di ciascuno si amalgamano a quelli degli altri in una costruzione musicale a più voci, diventa impossibile distinguere le parole e si sentono solo delle sillabe che urtano tra di loro, prive di senso e accavallate alle note) pensò la polizia che, chiamata da qualcuno del vicinato, arrivò a sirene spiegate e addirittura in tenuta antisommossa. Era il momento giusto per andarsene, anche perché, oltre al parapiglia ancora in corso, sul palco c’era pur sempre un cadavere e, tra identificazioni e interrogatori, si correva il rischio di rimanere inchiodati in quel posto per ore. Peter strinse forte la mano della Lady, che lo assecondò subito con l’arrendevole eleganza delle sue lunghe dita, e così, dopo aver percorso di slancio un breve corridoio che terminava a forma di elle, riuscirono a guadagnare insieme e senza problemi la porta aperta sul retro. Appena fuori, li investì una sensazione refrigerante e felice di spazio aperto e di notte fonda, e poi la quieta consapevolezza di un tempo obliquo, ritrovato e ancora tutto da condividere. Mentre si aggiustava il soprabito, Peter fece appena in tempo a notare di lato, sotto un lampione, la figura, camuffata da un ampio costume di scena in stile berbero e tuttavia ben riconoscibile, dell’attore che durante lo spettacolo aveva interpretato Amleto, il quale, dopo averli seguiti quasi certamente nella loro fuga alla chetichella, stava riprendendo fiato accendendo una sigaretta, solo un istante prima di lasciarsi inghiottire dalla notte e dalla nebbia come l’ombra senza volto di Jack lo Squartatore.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti