L’UOMO DISINCANTATO – Una serata al teatro sperimentale (1)

Non conoscendo il posto – che tra l’altro già dal nome dava l’impressione di essere abbastanza fuori mano – dove andava in scena lo spettacolo che incuriosiva così tanto la Lady e ancor meno la strada migliore per raggiungerlo, Peter preferì chiamare un taxi che, dopo averli presi a bordo (l’autista indiano era di una squisita e composta gentilezza anche se il suo aspetto arcigno da sikh – la barba nerissima e appuntita, la reticella sui capelli e il codino legato da un nastro color panna – non invitava affatto alla confidenza), si lasciò risucchiare con sapiente naturalezza da una vivace topografia secondaria fatta di angoli insospettabili, di piccole svolte minuziose, di piazzette e viuzze decorosamente scavate in mezzo a edifici in genere a due o a tre piani, e comunque mai troppo alti, così da riuscire a compiacere meglio l’eleganza seriale del modernariato architettonico, e di vicoli grigiastri, rosicchiati in lungo e in largo da un malessere di superficie che si sarebbe forse potuto interpretare come riluttanza, malessere tipico, d’altra parte, di tutte le scorciatoie quando la loro vera indole campestre e avventurosa, così come l’innata predilezione per i fuggiaschi, vengono frustrate dalla presenza di stabili e consistenti insediamenti umani che le banalizzano, facendone le più piccole e meno considerate tra le arterie stradali di una qualsiasi grande città.
Quando furono giunti a destinazione, Peter pagò il tassista che, quasi commosso per la cospicua mancia che gli aveva elargito, prima di ripartire continuò a ringraziarli per un po’, nonostante lui e la Lady avessero già cominciato a percorrere la discesa tortuosa che portava all’indirizzo che cercavano, aumentando il tono della sua voce di pari passo con l’accrescersi della distanza. Per un istante appena, Peter si soffermò a pensare al fatto, ovvio ma tutt’altro che insignificante, che con ogni probabilità non l’avrebbe mai più rivisto in vita sua. Fu sfiorato, con la stessa grazia che sentiva vibrare nella morbida mano della Lady mentre cercava di intrecciarsi alla sua durante il cammino, dalla consapevolezza che nell’arco di un’esistenza la maggior parte degli avvenimenti capitano una volta sola, sono puri eventi singoli, attraversati appena e già subito perduti, mentre quelli che al contrario si ripetono, dando così alla vita stessa il suo passo e il suo specifico carattere, appartengono più che altro all’incanto dell’illusione, al tentativo di mettere radici alla meno peggio, cercando di ingannare la vecchiaia che viene con la noia che va. Davvero prezioso è solo l’unico: il molteplice viene dalla catena di montaggio. Ma questi pensieri, tanto velocemente accartocciati dalla sua mente, ebbero poco tempo per spiegarsi, perché il sorriso raggiante della Lady era già lì, davanti a lui, come sempre integro e perfetto, a dirgli che erano finalmente arrivati, ed egli non poté fare altro che lasciarsi andare una volta di più e in esclusiva alla dittatura della sua luce.
Il teatro si trovava all’interno di una specie di comune che comprendeva un’azienda agricola, gli studi di alcuni artisti e fotografi, un piccolo birrificio, un laboratorio artigianale per la produzione di oggetti in ceramica (piuttosto brutti) e una serie di casette prefabbricate tutte uguali e divise tra loro da piccoli giardini di identica metratura. La sala per gli spettacoli, i camerini, il foyer e il botteghino della biglietteria erano stati ricavati nell’ala più piccola di un fabbricato dismesso da anni dai legittimi proprietari, e che a poco a poco era stato incluso senza scontentare nessuno nel recinto ideale di quella piccola città stralunata, mentre gli appartamenti ancora abitabili della parte rimanente dell’edificio erano stati ristrutturati alla buona e ospitavano quasi tutti famiglie di ex-detenuti che, avendo difficoltà a trovare un lavoro stabile (o non avendo alcuna voglia di trovarlo in quanto intenzionati a tornare a delinquere alla prima occasione propizia), non potevano permettersi di pagare un affitto vero e proprio. Quando si accedeva al teatro attraversando per intero il cortile di questo caseggiato, se si era fortunati e non erano in corso liti furibonde, se le radio, invece di gracchiare come sempre al massimo volume, tacevano all’opposto tutte insieme e i ragazzini si sottraevano per più di due minuti consecutivi alla perenne tentazione di abbandonarsi a pianti interminabili e a urla indiavolate, ci si sentiva accolti da una strana pace, prima intima che esteriore, e si aveva la sensazione di entrare in un quadro iperrealista – sul tipo di quelli che Peter aveva visto esposti nella galleria di Isy Brachot a Bruxelles – avvalorata magari dalla presenza su un ballatoio di un anziano reduce di guerra in canottiera e pantaloncini (a indicare una pensione da fame), desideroso di ostentare sul far della sera il senso e il valore della sua vita riassunti alla perfezione nella gamba persa per intero sopra una mina tedesca, oppure da quella di una donna in vestaglia di cotone stampato a fiori, coi capelli scarruffati e appoggiata con delicata cedevolezza alla ringhiera, intenta a rifiatare un po’ dalle molte fatiche quotidiane, soffiate via insieme al fumo della sua sigaretta, ma anche troppo generosamente sovrappensiero nel mostrarsi per non schiaffeggiare il mondo circostante con l’impatto formidabile e certo di un’altra verità; soprattutto però si veniva salutati dallo sbandierare, più o meno lieve a seconda dell’intensità del vento che riusciva a infilarsi nel cortile, di immensi bucati sciorinati ad asciugare, e c’era senza dubbio qualcosa di cerimonioso e addirittura di elisabettiano nelle lenzuola e nelle tovaglie che ondeggiavano in aria con la pacata solennità degli stendardi, nei pantaloni che garrivano come bandiere dal battente a due punte, nelle mutande scosse freneticamente come gagliardetti.
Dall’ingresso della comune, quello cioè che Peter e la Lady avevano appena varcato, non si giungeva dunque immediatamente al teatro ma, anzi, arrivarci era tutt’altro che semplice: c’era infatti  il rischio di perdersi in un dedalo di viottoli sterrati che si sviluppavano tortuosamente tra silos, fienili, stalle ed edifici vari, oppure di trovarsi a tu per tu con una volpe affamata o con qualche cane pastore poco propenso a socializzare.
La Lady chiese informazioni a un giovane di circa vent’anni, piuttosto alto, moro di capelli, strizzato in un completo di velluto blu a costine sottili sotto il quale luccicavano una camicia di seta color aragosta e la grossa fibbia rettangolare della cinta. Questi le rispose che c’era un po’ di strada da fare perché il teatro si trovava dalla parte opposta rispetto all’entrata della comune ma che comunque era sufficiente non perdere di vista la fila di lampadine rosse che serviva da guida lungo il cammino. “Dovete fare un po’ come se le luci rosse fossero i sassolini di Pollicino…” disse ridacchiando. “D’altro canto,” soggiunse accostandosi appena all’orecchio della Lady dopo averla squadrata da capo a piedi, “vedo che lei ha già un accompagnatore, altrimenti mi sarei proposto molto volentieri come guida…”
Purtroppo quell’individuo non poteva sapere che tra i comportamenti maschili che la Lady considerava davvero intollerabili non soltanto se erano rivolti a lei ma anche quando venivano semplicemente tenuti in sua presenza, l’ammiccamento impertinente e stereotipato del seduttore professionista era di gran lunga il più aborrito. E infatti quel suo approccio così ordinario valse subito al giovane playboy uno di quegli sguardi arsi da un disprezzo tanto palese quanto assoluto che, insieme a pochi altri contegni riservati ad altrettante specifiche circostanze, servivano alla Lady, di solito ieratica e tutta pervasa da una grazia fiorentina e botticelliana, a non perdere il gusto terreno di rimanere una, sebbene mai comune, mortale.
Il cammino verso il teatro – quello segnalato cioè dalla sequenza ordinata delle lampade rosse che già di per sé, serpeggiando a mezz’aria, pareva un’installazione d’arte concettuale – iniziava con una scaletta di legno mezza interrata e proseguiva in una grande sala oblunga, che in passato poteva essere stata un granaio, adattata sia al transito che al bivacco: infatti lungo il lato chiuso dalle mura erano stati posti alcuni divani ricoperti con una stoffa verde molto sbiadita alternati a un buon numero di poltroncine color sangria piuttosto lise e qua e là anche bucate dalle braci delle sigarette (tutta roba probabilmente trafugata da qualche discarica e rimessa in sesto alla meno peggio); mentre dalla parte opposta c’era una successione di archi in mattoni completamente aperti, privi di chiusure o di vetrate. Su un divanetto una coppia beveva whisky e si palpeggiava in penombra senza nuocere troppo al grande silenzio generale. Peter guardava la Lady che camminava a pochi passi da lui: nel percuotere il suolo, i tacchi delle sue scarpe eleganti parevano dare il tempo alla vita di qualsiasi cosa nel raggio di chilometri; e mentre le lanterne rosse oscillavano appena al vento sopra di loro se ne stava incantato a guardare la luce della luna che si insinuava come un miracolo tra le caviglie nude della sua amante.
Procedendo lungo la via delle lampade rosse, una volta usciti dalla parte opposta della sala, avevano costeggiato le casette prefabbricate che, con il loro puntiglioso allineamento prospettico in fuga lungo un lieve dislivello del terreno e ciascuna col suo giardinetto ben curato, tutt’a un tratto avevano restituito a Peter, completo perfino del sentimento di assorta e solitaria curiosità che lo accompagnava sempre quando, da quel bambino malinconico che era, trascorreva interi pomeriggi tutto solo nello studio di suo padre a sfogliare i grandi libri illustrati della biblioteca, il ricordo preciso di una fotografia, riprodotta su due pagine con dei colori che allora gli parevano incredibilmente fiabeschi mentre in realtà erano soltanto stampati male, in tonalità troppo accese, dove si poteva osservare nel dettaglio uno dei tanti vialetti, sui quali si affacciavano appunto una dopo l’altra le piccole case dei frati, che attraversano l’area dell’eremo di Camaldoli, in Italia, un antico monastero che sorge in mezzo ai boschi del versante toscano dell’Appennino.
Di pari passo con la reviviscenza di quell’immagine, però, si materializzò anche nella sua mente, e in modo così violento da costringerlo a rallentare visibilmente il ritmo dei suoi passi a causa di un fastidioso formicolio che, dopo avergli anchilosato i piedi nelle scarpe, saliva lungo le gambe prima di esplodere in una specie di torpore da dissanguamento all’altezza delle cosce e dell’inguine, un desiderio improvviso di solitudine, di distacco assoluto dal mondo circostante; era come se avvertisse l’impellenza nervosa (o nevrotica) di starsene di punto in bianco per conto suo, incurante persino della presenza della Lady, tutto al di qua del perimetro fisico di se stesso, così da poter inseguire e rintracciare dentro di lui quel sentimento intimo e definitivo che intendeva gli appartenesse profondamente e che tuttavia riusciva a percepire ancora soltanto come un enigma, come l’ombra di una verità misteriosa dietro un vetro appannato. Valutò – sebbene solo per pochi istanti – persino l’eventualità di essere posseduto dallo spirito di un eremita scomunicato! Più che altro, però, aveva la sensazione di essere diventato invisibile, di aver subito, a causa dell’estrema fragilità che, dopo averlo pervaso, lo stava a poco a poco scontornando come una fotografia, la metamorfosi in una creatura aliena, capace di guardare il mondo senza essere vista dal mondo, modificandone radicalmente la realtà fino a porre anche su fondamenta del tutto nuove il proprio rapporto con esso: perché quella implicita nella condizione incorporea del non visibile è una solitudine molto particolare, che non ‘esclude’ per principio ma che, se e quando ‘include’, lo fa evitando sempre il rischio di contusioni troppo gravi.
Mentre cercava comunque di andare avanti lasciandosi condurre dalla successione delle pareti delle casette prefabbricate che non smetteva di tastare in modo sempre più nervoso e frustrante (più o meno come avrebbe fatto un cieco dopo essersi smarrito in un ambiente per lui del tutto nuovo), ogni elemento del paesaggio, a prescindere dal suo essere animato o inanimato, colpiva i suoi sensi, tra l’altro adattandosi perfettamente allo specifico modo di prendere coscienza, contribuendo poi a darle forma, di ciascuno di essi, con un effetto di spontaneo, comodo galleggiamento: sentiva incombere su di sé la strana suggestione – non avrebbe saputo dire di preciso se sempre schiacciante oppure gradevole o se soggetta invece all’influenza di entrambe le sensazioni in equilibri variabili nel tempo – di un’ideale vescica natatoria dalle dimensioni gigantesche posta nel dorso del mondo per facilitarne il viaggio alterandone il significato, divenuto così più arioso e impalpabile, e la realtà, fattasi dal canto suo decisamente meno faticosa.
Fu pervaso allora per contrasto da un autentico panico da abbandono e da deriva che, quanto a intensità, si sarebbe potuto paragonare all’angoscia che prende il nuotatore alle prime armi quando all’improvviso si accorge che l’acqua è diventata troppo alta per consentirgli di rimettersi in verticale e di toccare di nuovo il fondo con i piedi. Se in questo caso il dimenarsi scomposto di chi teme di affogare finisce per esporlo al rischio concreto di perdere definitivamente e con esiti tragici il controllo sulla situazione, in quello di Peter, al contrario, la volontà improvvisa di non lasciarsi andare a quel sentimento ovattato e distante del mondo e della vita che, a partire dal malessere fisico che gli impediva ancora di camminare con scioltezza, ne stava rapidamente implicando un drastico ridimensionamento emotivo già in bilico su una vera e propria – rischiosissima – sconfessione definitiva, lo tirò fuori dallo stato di morbida angoscia in cui si trovava, ricordandogli la vicenda del Dottor Jekyll e di Mister Hyde. In un certo senso, egli ebbe l’impressione di essersi appunto trasformato nel suo personale Edward Hyde; che cioè per una ragione misteriosa o anche per uno scompenso neuro-chimico, qualcosa dentro di lui si fosse all’improvviso modificato, innescando la crisi che lo aveva reso quell’uomo dalla camminata claudicante, quasi cieco, sgradevole, insensibile, distaccato persino dall’amore per la Lady. Proprio come per Jekyll gli occorreva quindi un antidoto. In verità più per il piacere della dipendenza che per le suggestioni della letteratura, si ricordò di tenere sempre due pasticche di D.O.G. nella tasca interna della giacca; ne afferrò una e, dopo essersi riempito la bocca con la saliva, la ingoiò. A poco a poco il torpore alle gambe scomparve e riprese a camminare normalmente, anzi forse più spedito di prima, le lanterne rosse riapparvero nella pienezza dei loro contorni e la luna cessò finalmente di galleggiare come una boa bianca sulla superficie liquida della sua stessa luce; il mondo intero riprese consistenza così come, dentro di lui, l’affidamento sentimentale alla sua voglia assoluta di giocare a tennis, di sentirsi un uomo elegante, di bere cognac, di arredare il suo Digamma Cottage, di fare l’amore con la Lady. Tanto è vero che gli furono sufficienti pochi passi per esserle di nuovo vicinissimo. Lei, fermandosi e appoggiando appena il mento sulla spalla nel voltarsi come faceva sempre quando si sentiva rilassata e felice, gli disse piano: “Stasera sei particolarmente bello…” Almeno per lei, Hyde non c’era mai stato.

(estratto dal secondo volume)

©Andrea Rossetti

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