“Mia cara Milica,
per credere in Dio dovrei prima capire perché lo faccio, darmi una spiegazione plausibile per una scelta tanto assurda. Ma, a parte la naturale paura di morire e la tristezza lancinante per la morte di chi amo, non riesco a vedere nessun altro motivo sensato per farlo. D’altra parte la paura, la tristezza e, soprattutto, la morte non spingono mai verso la saggezza, direi quasi che non comportano il gene della buona ragione, le prime due per difetto, la terza per eccesso evidente. A conti fatti, pertanto, mi vedo costretto a perseverare, con lusinghiere probabilità di successo finale, nella mia presunzione di ateismo.
Non piantare mai dei fiori sul ciglio delle cose che finiscono, lascia che svolti da sola quell’ultima curva, angariata dai suoi spettri come fossero fronde secche di alberi infelici. E poi corri, Milica, corri: che il tuo respiro si spenga nella fame di fiato, che si fermi il tuo cuore nello schianto di un battito ormai defraudato di ogni possibile controllo. Com’è naturale la violenza e quanto santa l’autodistruzione! Non rimpiangere il silenzio delle cose perdute ma piangi, se ancora un poco di pianto ti resta, il frastuono assordante del tuo viaggio presente. Quando infine più nulla ti rimarrà da fare al di qua di una noia infinita, sia quello per te il segnale dell’ingresso nell’ultimo giorno. Allora non lasciarti tentare da un nuovo lancio di dadi, dall’incongrua ripetizione, dal bisogno di pentimento, dall’ansia virtuosa di limare ancora un po’ quel gesto per non lasciarlo indietro abbozzato e insoddisfacente, ma prenditi quieta per mano e passa al di là di te stessa con tutto l’orgoglio che bagna i tuoi occhi bellissimi e fieri.
Milica mia, con quanta, recondita grazia hai vissuto l’arco teso e breve della nostra vita spoglia, succinta come un abito tessuto per non avere segreti, scoccando a tratti contro di me frecce penetranti di disumano affetto e pure subito sanguigne di solitudini inesorabili. Abbiamo esaudito insieme ogni preghiera, anche la più scura, e poi spiegato i giorni, ogni riposta incognita, accettandoci l’uno nell’altra, tra l’orgoglio della vela issata controvento e gli angoli ribelli di una modesta tovaglia quotidiana. Di quale e quanta beatitudine oscena siamo stati i possibili spettatori! Perché ci si ama davvero soltanto nell’ansia di perdersi, di separarsi, perché l’amore non unisce se non nell’amore, nel gesto unico, povero e senza destino lanciato allo sbaraglio contro la lontananza che incombe irrefutabile, come un bacio materno o l’estremo sussulto dell’istinto di conservazione.
Il tuo,
Elias”
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti