“Perché mai dovrei essere disposto a credere, Francis? Solo per giustificare le mie aspettative, dato che se si crede lo si fa sempre per poter ritenere credibile una qualsiasi speranza? Ma una speranza non è che una banalità al tempo del suo carnevale! Tanto poi arriva sempre puntuale il mercoledì delle ceneri e tutto s’ingarbuglia o si semplifica, comunque si perde via, svolazza radendo l’inverno, addirittura si biasima da solo, sebbene sempre al ritmo di un onesto valzer piovigginoso, finché le folate ottundenti di vento penitenziale si rinserrano per soffocare definitivamente quel po’ di fiato che era stato per davvero allegro e danzante. Alla fine lo piegano, come fosse una barretta di lega di stagno, per adattarlo all’ovvietà della respirazione indistinta delle fiammelle delle candele. Questa è la vita tristemente cristallina di tutte le cattedrali che ci piace tanto imitare, caro mio. È così che le nostre speranze diventano i santi e le madonne dagli occhi vitrei e dai gesti di marmo. Fossero almeno scollacciate quelle madonne, fossero almeno evirati quei santi, ma non lo sono mai, perché all’ombra delle navate non c’è veste che non sia pure il più pesante dei sipari. Il destino delle cose divine è indiscutibilmente nelle tenebre. Le nostre speranze decadono in preghiere, nell’ansia disperante di benedizioni. Ma l’imbuto si stringe inesorabile e scolora ogni cosa e quindi taglia le parole nelle gole come vene giugulari di maiali macellati e, infine, atterra, infanga, spegne d’un tratto tutta quanta la luce. Ogni vita, nessuna esclusa, finisce ingloriosa in un mento che pende, nella pelle cascante delle braccia, in mani e piedi orrendamente avvizziti. La sconfitta della giovinezza è sempre una tormenta definitiva che non ha niente della furia gloriosa delle tempeste. Alla resa dei conti si riduce, guarda caso, a un piovasco: chi viene dopo. fidati, camminerà senza darsi tanta pena sulle poche pozzanghere che sono rimaste.”
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti