Peter se ne veniva passeggiando per la strada che dall’All England Lawn Tennis and Croquet Club va verso Wimbledon Park. Si era sul far della sera e lui si guardava intorno, vagamente addolcito dalla conquista di una gradevole prossimità con l’ordinata ampiezza di quel giardino che, come una tortuosa salamandra nera, gialla e verde, dalle cime degli alberi fino all’ultimo stelo d’erba, inghiottiva tutta intera e accartocciata l’estrema luce del mondo, che a quell’ora somigliava all’elettrica vitalità cangiante di una grossa libellula screziata (a Wimbledon infatti, in certi momenti, può sembrare verosimile che il mondo conosciuto inizi e finisca proprio a Wimbledon, sospeso in aria tra due racchette, dopo aver assunto la forma di una pallina).
Senza rinunciare a tutta la prudenza suggerita dalla sua necessaria lucidità razionale, si era comunque lasciato sedurre con piacere dall’avvento di un umore diverso dal solito, un umore arioso e leggero, che aveva confuso e messo in moto i suoi sentimenti con la stessa naturalezza con cui il vento fa ruotare le girandole di carta tra le mani dei bambini. Seguendone la scia, egli aveva infine trovato abbastanza spazio nella sua mente per riuscire a riflettere senza provare alcun dolore sul fatto che nulla comporta una sofferenza più grande dell’inconsapevolezza; un tormento inattuale e potenzialmente infinito, una promessa, una maledizione scagliata d’ufficio dalla mente contro l’anima, ovvero in fondo contro se stessa, per un cortocircuito della vita spirituale. È l’inconsapevolezza – pensava – che dissemina di autentica, solida sofferenza una vita intera, che riempie solchi invisibili incisi da aratri sanguinari: essa è il prezzo che gli uomini pagano per poter felicemente ignorare il giorno esatto della loro fine. Così però tutti muoiono ogni giorno, un tanto a ogni risveglio. Si sa che finirà ma non quando né come, e in questo minimo spazio, nella medesima camera segreta dello stesso ospedale di sempre, c’è finalmente il tempo per illudersi di respirare, per mettere a frutto la più brutale delle abdicazioni, inesorabilmente vivacchiando (non si trattava di un caso, giacché nelle giornate precedenti, tanto accidentalmente pigre quanto in sostanza liete di mancare ogni occasione buona per rendersi rilevanti, Peter aveva già assorbito l’impressione di aver stretto in qualche modo un patto con un cappio d’argento, uno strano patibolo ideale, derivato in modo maldestro da un turibolo per l’incenso).
“Tamquam tabula rasa in qua nihil scriptum est”: questo voleva allora che diventasse la sua vita, la circostanza casuale che, da riottoso innamorato, fin dall’inizio nascosto e nondimeno ingombrante, aveva a quel punto programmato di ristrutturare con destrezza, grazie al tennis e agli effetti straordinari delle pasticche di D.O.G., nella pubblica solitudine di una finzione chimicamente rivenduta e corretta.
Da anni non faceva altro che disossare la tradizione di se stesso affinché nulla gli restasse attaccato troppo a lungo: né tendini battezzati, né muscoli di memoria, né midollo storico. Un’opera minuziosa di chirurgia emotiva sotto anestesia da svogliatezza. In questo modo aveva reso sempre più efficace la pratica del rifiuto sistematico di un coinvolgimento nel losco affare della sua mera sopravvivenza, tanto da scorgere addirittura la possibilità concreta di rovesciare ciò che fino ad allora non era stato altro che l’allucinante abbattimento di una già di per sé allucinata opera di costruzione, ricominciando tutto dal momento in cui – ancora bambino – aveva visto i becchini che, col loro tipico e naturale sovrappensiero, sigillavano il corpo di sua madre, morta il giorno prima, dentro la bara lucida di legno chiaro, squagliando una barretta di stagno lunga pochi centimetri con la fiamma ossidrica, mentre lui, con tutta l’ingenuità infantile che aveva all’epoca, si domandava cosa lei stesse provando in quel momento, mentre veniva chiusa per sempre nello spazio angusto del suo giaciglio funebre. Allora non era stato in grado di comprendere che invece in quel giorno non era stata sua madre a essere segregata nel suo piccolo e tuttavia sensatissimo letto di seta e raso fatto su misura per accompagnarla sottoterra, ma tutti loro, i vivi e vegeti, a rimanerne chiusi fuori, condannati all’ergastolo in una mondana e liquida vastità priva del benché minimo senso.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti