L’UOMO DISINCANTATO – Soliloquio quasi interiore sulla terrazza dell’Hotel Danieli, a Venezia (9)

Mentre scorre, l’acqua dei canali veneziani emette più o meno sempre lo stesso rumore, una sorta di fruscio singhiozzante che a volte, anche se solo per pochi minuti, riesce a innalzarsi in modo quasi sfacciato sino all’enfasi massima del fragore possibile oppure, ripiegando svelto verso una schiva essenzialità sonora che ricorda un po’ quella dei rigagnoli o delle grondaie, a farsi del tutto calmo, per poi raggiungere all’improvviso l’estatica perfezione di una quiete astratta e grandiosa nella quale l’unico suono davvero verosimile è quello assoluto del silenzio che, tanto immobile di primo acchito quanto invece scomposto in segreto, l’avvolge come un denso banco di nebbia zuccherina; un silenzio che vibra comunque di aloni luminosi e che è scosso in profondità dallo sciabordio liquido di diafani lampi inspiegabili e convulsi. Dandogli le spalle o trovandosi, come nel mio caso, conficcati nel seno angolare di una larga terrazza e avendo a disposizione dei sensi soltanto un rumore, un gorgoglio costante nutrito parimenti di ebbrezza e di disgusto, d’un tratto ci si rende conto che non è per niente facile distinguere davvero una fogna dal mare. Ebbene, alla nostra vita accade più o meno la stessa cosa: la sua componente fondamentale scorre via con fatica o perlomeno vagamente percepita, così che poi possiamo metaforizzare, dipingere, scrivere romanzi, comporre musica o addirittura progettare architetture e ponti, seguitando ciascuno giustamente quel che l’indole di volta in volta ci suggerisce. Ciò che avviene di fronte a noi, sotto i nostri occhi, non è che un vago destino contingente, tessuto dall’incrocio quotidiano tra la congettura dell’aria, l’oggettività della terra e il fuoco del tempo. La parte fluida della vita però, quella davvero creativa e dissetante, scorre invisibile dietro di noi che non possiamo fare altro che carpirne il segreto per tramite di molteplici supposizioni, le quali col tempo sanno farsi sempre più raffinate e complicate, entusiastiche negli anni giovanili, aggrovigliate e spinose in tarda età, e il cui comune denominatore è sempre tuttavia l’assenza impenetrabile di una possibile verità. Per questo la vita, che sia nascosta alle nostre spalle o che sia persa invece in fondo all’orizzonte, non può che avere sempre e solo una banale voglia di se stessa. Nel caso in cui poi, fuorviando, un innegabile lezzo dovesse infine raggiungerci, suggerendo con misteriosa impertinenza che ciò che scorre in lontananza oppure dietro di noi potrebbe non essere proprio l’acqua cristallina di una sorgente, ecco che in aiuto dell’arte verrebbe la tecnica, il ricorso all’inganno consapevole della civiltà, mediante l’offerta di un profumo – magari quello fattosi nel tempo il più fidato, il preferito – che sbiadirebbe la muta comicità dell’incertezza rendendoci più agevole anche la paura. Se non esistessero le profumerie saremmo tutti molto più aridi e angosciati: la produzione industriale dei profumi è senza dubbio uno dei più decisivi contributi della cultura alla conservazione della specie umana.

Comunque sia, mi rendo conto di sentirmi ormai prossimo – e disponibile perfino a conti fatti – a qualche forma certa d’addio. A premere in questo senso è anche il congedo faticoso dell’ultima modernità, quella subito precedente l’avvento massificante del concetto informatico di interfaccia, e quindi dei sistemi operativi e di internet. La mia vita è stata fin qui una specie di strana epopea crepuscolare nella quale l’incertezza perenne fra il tramonto e l’alba, simboleggiata alla perfezione dal passaggio dal legno alla grafite nella produzione delle racchette da tennis, di cui la leggendaria Dunlop Max 200 G – lasciata, in un ideale passaggio di testimone, da John McEnroe, incarnazione per me dell’essenza stessa del tennis, a Steffi Graf, magistrale nocchiera dal regno del maschile alla signoria del femminile – è l’emblema perfetto, coglie il mistero marginale di un tempo di mezzo, di un limbo ancora appena umanistico che la modernità e la post-modernità, nel loro rutilante non succedersi, avevano, chissà come e perché, completamente rimosso.

(estratto dal terzo volume)

©Andrea Rossetti

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