Con la calma incredulità che oggi posso mettere compiutamente a disposizione dell’indifferenza con la quale guardo ai miei giorni e in genere al senso indimostrabile e sempre più presunto della vita, dopo essermi affrancato una volta per tutte dalle confuse pastoie sentimentali che caricano l’esistenza degli uomini del peso di significati che essa – gracile, brevissima e insignificante com’è – non è in grado di sostenere se non avvitandosi senza costrutto attorno alla sopravvalutazione empatica di uno sciame confusionario di richiami nel quale si mescolano in eguale misura desideri, ansie, incertezze, entusiasmi e assilli speranzosi, mi guardo intorno sorridendo a distanza ravvicinata agli oggetti anonimi che si offrono uno dopo l’altro alla mia vista, mentre me ne resto seduto nell’angolo migliore di questa grande terrazza elegante che adesso pare dipanarsi addirittura infinita davanti a me tra gli estremi candori dell’ombra e i primi tormenti crepuscolari della luce, e scorgo i tratti e le espressioni di gente vanamente spensierata, dai movimenti lievi e concreti, messa comoda dallo stesso, trasandato appagamento; e poi, distraendomi oltre ancora un po’, un’infinità di abiti, tutti chiari ed eleganti, scossi dal vento come un nugolo di vele spiegate alla gioiosa partenza di una regata.
Non c’è dubbio: gli uomini nascono tutti con uno sguardo buono, un misto di paura e di stupore; uno sguardo che in un certo senso abbraccia il mondo anche se questo rifiuta il suo slancio. Può farlo con sdegno oppure con cortesia, ma lo fa immancabilmente. Allora quello sguardo originario declina verso un grigiore attonito, mischiando un’altra paura e un altro stupore. La bontà che c’era s’incupisce nell’adattamento, vacilla nella noia, trova pace nelle ragioni della disillusione. I migliori, i più strutturati tra quegli sguardi, però, non sopravvivono senza reagire al rifiuto del mondo, smettono di vedere per diventare visionari e in loro si fanno largo e si separano, come le acque del Mar Rosso, il grido disperato della vittima e l’urlo feroce del carnefice. Non importa da quale parte finiscano schierati, perché un tiro di dadi non implica una scelta, quel che conta invece, nei carnefici come nelle vittime, è la percezione netta di un’origine comune, ed è in nome di questa dolorosa fratellanza che gli individui di entrambi i gruppi passano tutta la vita a cercarsi per compiere reciprocamente il proprio destino. Non per niente ritengo da sempre che la sindrome di Stoccolma sia senza dubbio la più precisa tra le metafore in grado di descrivere un’ipotetica psicologia generale della storia.
Gli uomini come me, invece, sono quelli che si collocano in uno strano limbo, nel quale vivono essendo perennemente dissuasi dal farlo in ragione della loro olimpica svogliatezza (una delle affermazioni preferite da Lord Finnegan, che pure non apparteneva a questa specie d’individui, era: “Pochi conoscono la magia della svogliatezza: non c’è convito d’amore più alto e riuscito di quello tra due amanti che non hanno voglia di fare un bel niente!”); sono quelli che quasi tutti i loro simili, lasciandosi sedurre nemmeno tanto sottotraccia dall’invidia sociale che da sempre ha ispirato la vanità delle rivoluzioni (non è per caso la rivoluzione un movimento che ritorna senza mai derogare su se stesso?) e dalla sommaria ipocrisia che ne deriva, definiscono ignavi e considerano alla stregua di inetti parassiti, privilegiati e abulici; quelli che per i credenti, infine, sarebbero addirittura da identificare con l’acqua tiepida di Laodicea vomitata dall’Amen in persona nell’Apocalisse. Ci sono casi, però, in cui alcuni di loro – ancora non riesco a dire di noi o, ben più verosimilmente, dirlo non avrebbe e non avrà mai comunque un senso, a prescindere dalla mia disposizione del momento – arrivano alla fine a ricongiungere l’essenza alle apparenze nel solco di un sentimento limite, il cui carattere fondamentale con un certo estro si potrebbe definire filodrammatico, troppo complesso da decifrare nella sua disarmante e immediata trasparenza a un tempo ragionevole e irrazionale e al quale perciò mi sono accontentato di attribuire appena il nome romanzesco di disincanto; e nel far questo essi trovano anche, senza nutrire mai pretese magistrali, quell’equilibrio armoniosamente difettoso che, come la volta troppo bassa della cripta di una pieve rurale quando incombe da molto vicino sulla testa di chi si avventura a esplorarla, piega l’assoluta indesiderabilità della vita umana allo spazio domestico di un coscienzioso culto personale mentre ne rimodella il tempo in una calma liturgia delle ore più adatta al movimento imperturbabile della ruota panoramica di un Luna Park che all’immobilità del coro monastico di una chiesa.
©Andrea Rossetti
(estratto dal terzo volume)