L’UOMO DISINCANTATO – Si muore di disamore.

Le motivazioni del suicidio di Tea Boot che, dopo aver ingerito una modesta quantità di barbiturici allo scopo di provocarsi uno stato di vigile e soffice stordimento, era entrata negli spogliatoi dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club riservati agli uomini e si era chiusa all’interno del bagno numero dodici (una scelta troppo precisa per essere casuale, che infatti i soci del circolo più ferrati in enigmistica, riunitisi spontaneamente in appassionati capannelli non appena la notizia si era diffusa, avevano subito interpretato come la chiave di lettura di un’ultima e tragica sciarada) per poi incidere a fondo i suoi polsi, fino quasi a spezzarli, con la lama d’acciaio giapponese di un affilatissimo rasoio da barba artigianale col manico in mogano (forse un altro indizio) e infine abbandonarsi alla progressiva incoscienza di un’ultima, esangue deriva tutto sommato gentile e di certo risparmiata dalla più dispendiosa gravità del dolore, non erano mai state chiarite. Anche il messaggio d’addio, che prima di uscire di casa aveva adagiato sopra il cuscino del suo letto come se fosse l’ideale altorilievo scolpito dai tanti rovelli e pensieri che nel corso degli anni si erano accavallati nella sua mente fino a stremarla (o a liberarla), non era altro che un racconto allusivo e indecifrabile al quale, con tragica quiete, ella aveva affidato l’indicibile complessità di quel suo atto estremo di abbandono alle regole, al tempo stesso oscure e trasparenti, dell’esistenza.
“La vita è un viaggio devastante. Avrei voluto avere il tempo sufficiente per realizzare tutta la bellezza che fin da bambina mi aspettavo di poter vivere, ma la cruda verità delle vicende dei miei giorni tra di voi mi hanno invece obbligata a usare buona parte del poco che sono riuscita ad accantonare per sottomettermi ad azioni terribili, delle quali, nonostante l’assoluta onestà che in coscienza rivendico per me stessa, non riesco a non vergognarmi profondamente. In certe circostanze ci si sente in colpa proprio per il fatto di non averne alcuna. Arrivata a quel punto, estremo al di là di ogni immaginazione, ciò che mi rimaneva da vivere, per molto o poco che fosse, non sarebbe stato altro che un lungo addio carico di sempre più penosa stanchezza, come un cielo appesantito da grandi nuvole piene di una pioggia che non si decide mai a cadere. Avrei potuto ribellarmi? Forse sì, ma non sarebbe comunque servito a niente, perché sarei stata addomesticata con le cattive anziché con le buone e questo avrebbe solo aggiunto violenza a violenza. È il dazio che tocca pagare per godere del lusso della debolezza. E quanto poi al valore intrinseco della ribellione fine a se stessa, io non ci ho mai creduto: è una brutta idea  romantica da poeti scadenti, e la poesia, per quanto mi riguarda, è già abbastanza uggiosa quand’è bellissima. Avrei soltanto perso tutto fin dall’inizio, senza avere la possibilità di conservare qualcosa da poter perdere oggi per conto mio, esercitando finalmente la libertà più invisibile e sottile: quella di fare ciò che è necessario per averne riconosciuta la necessità.
Che avreste voluto da me? Pretendo oggi, nei fatti, che mi sia riconosciuto pienamente il diritto di sottrarmi a me stessa affinché non possa e non debba mai più acconsentire alle incongruenze del divenire del mio non poter essere, che però in questo caso, vi piaccia o no, è anche il vostro.
Ogni secondo che vivo ancora in vostra compagnia, sebbene attraverso questa stupida lettera di rito, è soltanto un passo avanti verso la condanna, verso la forca che mi sono preparata. Mi sono riservata almeno quest’ultima notte, da vera padrona del mio tempo. Chi sono i giudici che mi hanno condannata? Qual è il mio delitto? Sono stata guastata per il solo fatto di essere venuta al mondo, come una mela deforme, e forse, per via di quel masochismo che rende accettabile la rassegnazione, ho addirittura meritato questo verdetto. La colpa non è in fondo neanche vostra, che aspettate il giorno dell’esecuzione esattamente come me, solo che voi lo fate da ubriachi e io, invece, da sobria.
Ho frantumato la mia vita in tanti brandelli, cercando sempre un luogo migliore, senza vincoli, senza costrizioni necessarie, desiderando una vita che non fosse solo mia e una libertà che non fosse semplicemente lo spettro rovesciato delle mie paure, ma la memoria mi ha sempre bisbigliato, ventilando al mio cuore sciagure su sciagure, il fallimento di ieri che aveva già fatto prigioniero dopo un’altra battaglia perduta. Ma quale generale potrebbe mai vincere una guerra con un esercito come il mio, ma pure come il vostro, fatto di disarmati, di invalidi, di vecchi, di figli ancora pendenti dal seno delle loro madri prostitute, offese ogni notte dal bisogno di sopravvivere nei fatti e pazze sino al punto di credersi vergini per principio? E io, che sono soltanto una ragazzina mancata, potrei forse respingere le spade e i cannoni con le idee, io che non distinguo la verità di un violino da quella di un fucile? Siamo ciechi che lottano contro fantasmi, e i fantasmi sono giustamente molto più potenti dei ciechi.
Ho dissipato anche il desiderio dell’amore, che avevo custodito sino alla fine in un vaso prezioso, il più antico tra quelli che avevo a disposizione, e che ho frantumato mentre lottavo un’ultima volta col mio squallido padrone di casa, il quale, privo di vergogna, voleva pure aumentarmi l’affitto, e ne sono uscita anche male, tutta ammaccata. Sapevo che non avrei dovuto farlo, perché lui era grande e grosso, davvero molto più forte di me. Però non mi sono messa a piangere e ho pagato il conto salatissimo dell’ospedale immaginario raccontando barzellette oscene ai dottori e così, con una risata messa lì a tirare l’altra, ho scordato ogni cosa e ho passato il resto della notte nel bagno delle infermiere, le più gentili e comprensive in assoluto, cercando di incollare alla meglio i pezzi del mio povero vaso mentre riflettevo sul fatto che se fosse stato di plastica non avrebbe avuto alcun valore ma almeno non si sarebbe rotto a seguito della caduta e così, vedendo preservata e intatta la mia voglia di essere amata e di amare, anche i miei occhi non avrebbero mai fatto esperienza di quanto il pianto possa bruciare ristagnando nelle pupille di chi vuole vedere a tutti i costi a modo suo.
Lungo la strada che mi conduceva al mio ultimo posto, ho inciampato in mille pietre che somigliavano a nuvole robuste, mi sono apparsi molti angeli e molti demoni e io mi sono inginocchiata davanti a tutti senza fare domande per evitare di dover perdere il tempo necessario a non capire le loro risposte, e così loro sono scomparsi, uno dopo l’altro, senza fare nemmeno un miracolo, senza provare a indurmi in tentazione, forse indispettiti dalla mia imparziale arrendevolezza.
Sono nata per l’infelicità e questo è ormai il tempo finale della mia esecuzione. Mi concederò un ultimo desiderio in compagnia del mio vaso vuoto e incollato male. E può darsi che laggiù, sul muro che avrò di fronte e con il sangue che colerà giù dai miei polsi ma soprattutto dalle infantili mie dita rosicchiate, decida di disegnare il volto dell’unico angelo al quale, quando ero ancora tra i vostri sassi, ho disgraziatamente sorriso.”
Il suicidio di Tea Boot era forse l’unico vero mistero sussurrato dall’esistenza umana al gelido vento invernale che soffiava sulla conclusione indifferente e assopita di quell’anno ormai privo di grazia, umana e divina. Un mistero reso straordinariamente ingannevole dai molti eccessi della sua semplicità borghese e quindi piuttosto generoso di conclusioni sociali a buon mercato: Tea non era affatto una ragazzina triste o depressa e nella sua vita non c’erano segreti che non fossero tutti decifrabili a partire dal peso di un sovrumano egocentrismo; era una visionaria accecata da se stessa, così intensamente vitale da non poter fare altro che considerarsi invivibile; per lei la vita terrena era soltanto una banale e insopportabile lista della spesa – svegliarsi al mattino, lavarsi, attraversare luci, ombre e penombre, incontrare, salutare, mangiare, studiare, defilarsi, dormire – che aveva deciso di scorrere in fretta, tra pensieri sempre più appannati dal calore di braci avvilenti, un misto capriccioso di dolore, di offese imperdonabili e di sogni infranti, finché ogni cosa aveva cominciato a perdersi e a galleggiare, simile all’iceberg che affonda il Titanic ma anche al naufrago elegante precipitato dalla stessa catastrofe nell’acqua gelata dell’oceano, un inesorabile gigante di ghiaccio accanto a un piccolo smoking nero che agita le sue maniche minuscole mentre gorgoglia richieste d’aiuto rinnegate – com’è ovvio – da ogni specie di suono.

(estratto dal secondo volume)

©Andrea Rossetti

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